lunedì 29 dicembre 2014

IL SEGRETO INTENDERE


Dormire,

spegnere l'ansia 
di avvilupparsi all'incolore
respiro di ogni giornata,

penetrare in modo lento,
inesorabile,
il segreto intendere
i suoni del tempo
che si allontana:

ora io sono diverso da me
che appassisco;

mi rincorro
nel silenzio dei percorsi stellari

inutilmente stanco.


*****

immaginata il 17 aprile
riscritta il 29 dicembre 2014


*****  

lunedì 22 dicembre 2014

EFELIDI SUL NASO E UN CAPPOTTINO VERDE

Venivo dal Pincio insieme ad un amico, non ricordo chi fosse. Era una sera di marzo, avevo da poco compiuto quattordici anni e frequentavo il quarto ginnasio. Ero bravo, nessuno si lamentava di me, solo mia madre perché una volta messo il naso fuori dalla porta non ritrovavo più la strada di casa.
Insomma venivo dal Pincio e chiacchieravo fitto fitto con questo amico mio e non guardavo la strada. Poi è passato un giovanotto con la vespa e ho tirato su la testa. Allora li ho visti: lui col suo impermeabile nuovo appoggiato alla spalliera del ponte sulla ferrovia Roma-Torino, lei accanto a lui molto più composta. In quel momento lui le ha detto qualcosa e lei si è girata verso di me. Io ho riabbassato la testa. Che cavolo faccio adesso? Ormai mi hanno visto e altre strade non ci sono e lui mi aspetta al varco. 
Forse avevo rallentato perché il mio amico mi fa: "Sbrigati che altrimenti se li sono presi tutti i tavoli da ping-pong". Ah già, doveva essere Enrico, perché con lui facevo sfide interminabili a ping-pong e qualche volta vinceva anche lui, ma quasi sempre io. Così ho allungato il passo spingendo Enrico, io che stavo alla sua destra, verso l'altro lato della strada lontano dalla spalliera dove stavano appoggiati quei due.
Quando gli stavo a pochi metri ho biascicato a quello con l'impermeabile nuovo un ciao sottilissimo, ma lui col suo vocione mi chiama:
-Enzo.
Bloccato sul posto. Mi sono girato verso di lui, ma non gli bastava.
-Vieni qui.
Due passi, tre, gli sto davanti, anche a lei.
-Questo è mio fratello, Lei è Lidia.
Allora l'ho guardata in faccia. Ho visto le efelidi sul naso, non tante, solo sulla punta, poi gli occhi chiari, poi i capelli crespi, sul castano. Poi il colore del cappotto, verde bottiglia e le scarpe col tacco basso. Stavo lì come un salame e non sapevo che fare né cosa dire. Poi lei mi ha teso la mano e mi ha sorriso, denti bianchi regolari bel sorriso come di una che si diverte.
-Finalmente ti vedo di persona; tuo fratello mi ha tanto parlato di te che non vedevo l'ora di conoscere sto fratellino.
E posso immaginare cosa ti avrà detto, allora.
Penso di avergliela stretta la mano, ma non me lo ricordo. E non mi pare di essere rimasto ancora lì, né di avere recitato poesie. Me ne devo essere andato via subito con Enrico, che non parlava più come se avesse perso il fiato. Ero arrabbiatissimo con mio fratello. Io avevo fatto il tifo per Marisa B., la più bella di Civitavecchia, da quando li avevo visti insieme ad una festa. Già me la sognavo quella cognatona lì, con le sue gambe lunghe lunghe lunghe, il suo collo tornito e quelle labbra che la mia generazione sognava ogni notte prima di addormentarsi e si ritrovava davanti agli occhi ad ogni risveglio.
Gente, non c'era la TV e certe immagini ti scandivano le ore della giornata. Frequentava l'ultimo anno del liceo classico e tutte le mattine me la trovavo davanti. Un sorriso, un ciao Enzo in un soffio e la giornata era un trionfo.
Questa Lidia era molto carina, bel sorriso, begli occhi, bei denti, ma mio fratello questo non me lo doveva fare. Era una maestrina appena diplomata, mi disse poi.
Si sposarono un anno dopo. Io oramai mi ero rassegnato, ma non mi sono mai potuto lamentare della scelta del mio fratellone. L'aveva vista giusta lui. Per me lei diventò quella sorella che non avevo mai avuto, che mi era tanto mancata, un po' duretta di carattere, tosta come si dice dalle mie parti, un grande carattere, una grande donna, moglie e madre di due marmocchie e di un marmocchio. 

Mi è venuto in mente questo primo episodio della nostra vita stamattina quando ho saputo che Lidia era stata ricoverata in ospedale. Da alcuni mesi le hanno diagnosticato una leucemia acuta e se finora se l'è cavata a buon mercato ciò è dovuto al fatto che è assolutamente integra e che ha oramai 85 anni. A quell'età tutto va piano anche la leucemia.
Io so che lei ha un carattere da combattente. Non la darà vinta tanto facilmente alla sua malattia. La famiglia ha fatto quadrato intorno a lei, che è regina e re da quando tredici anni or sono mio fratello se n'é andato a passeggiare sui prati del paradiso. Sicuramente la sta aspettando in un bel posticino all'ombra con tanta luce e acqua vicino, ma questa volta lei gli farà allungare il collo per un bel po'. È quello che mi auguro anche io. Ormai è certo: il mio fratellone s'è beccato la medaglia d'oro, lei si prenderà quella d'argento e poi ci sono io. La medaglia di bronzo è già stata coniata, ma se la possono tenere sul cuscino insieme al mazzo dei fiori ed anche quella d'argento, nun è vero cognà? Fameli diventà scemi sti angeli custodi, fameli core, fameje venì er fiatone. Se la devono da guadambià la pagnotta stavorta. Daje cognà, daje Lidia, sei tutti noi.

mercoledì 17 dicembre 2014

DALL' ALTRA ESTREMITÀ DEL GUINZAGLIO

La dottoressa più carina e più gentile di tutte venne di primo mattino ad avvisarmi che nel pomeriggio mi avrebbero messo in uscita.
-Ha qualcuno che può venirla a prendere, signora Govi? Altrimenti le faccio prenotare un taxi.
-Lei è troppo cara, ma penso che mia sorella non si tirerà indietro.
Già, mia sorella. A conti fatti non mi era rimasto nessun altro. Ero abituata troppo male con mio marito, faceva tutto lui e gli altri erano d'accordo, tutti gli altri, i cosiddetti parenti e i cosiddetti amici. "Chiama Carlo, ci pensa lui. Sembra così felice di farti tutto per bene". E così si lavavano le mani. Ma adesso Carlo non sarebbe venuto. Quindi mia sorella Gianna. Se non altro sarebbe venuta per farmi due scatole così di tutti i suoi guai famigliari: con suo marito per cominciare, "Mica tutti sono come Carlo; mica ho la tua fortuna io, figurati"; coi suoi due figli, un maschio il primo e la femmina a ruota dopo appena un anno, "Non ti rendi nemmeno conto della fortuna che hai avuto e non avere figli,  sai quante preoccupazioni di meno che hai?"; forse, ma intanto adesso un figlio o una figlia mi avrebbero tirato fuori dalla melma dove sono precipitata.

Gianna rispose al secondo squillo, come se stesse aspettando la mia chiamata.
-Già ti fanno uscire? Quando? Oggi? Dopo pranzo? Si capisce che vengo, certo certo, faccio un salto dalla parrucchiera e sono da te. Ho una testa che fa schifo.
Io ci avrei sbattuto sopra un foulard, ma Gianna è così.
-A che ora vieni? Sai non vorrei stare nel corridoio troppo tempo.
-Come nel corridoio, non hai più la tua stanza? Ti sbattono fuori dalla tua stanza?
-Hanno bisogno di posti letto liberi, è un ospedale non un albergo a cinque stelle.
-Sì, vabbè, ma almeno potrebbero...vengo alle tre...dalle tre alle quattro...alle quattro, è più sicuro. 
Arrivò alle cinque, come avevo previsto.
Mezzora dopo eravamo nella sua macchina e io avevo solo bisogno di respirare. A parlare pensava Gianna, faceva le domande e si dava le risposte; poneva i quesiti e faceva i commenti, tutto un puro stile giannese, come diceva sempre Carlo. 
Dio mio, sono passati dieci giorni e mi manchi da morire. Come farò a tirare avanti?
Chiudo gli occhi e lo rivedo accanto a me nella sua auto, ma sono io al volante, dai fammela guidare la tua stupenda Audi sport, ho la patente da anni e guido pur sempre una Corrado, mica vai piano con quella nemmeno se vuoi, e oggi il tempo è buono, non piove. Sì, ma tu metti il Quattro ugualmente. Che roba è il Quattro? La trazione totale, così ti aiuta a non sbandare. Ecco se chiudo gli occhi mi rivedo così, al volante della Audi sport Quattro di Carlo; da dieci giorni tengo gli occhi chiusi con quel bel volante fra le mani e lui accanto che ride.
Intanto Gianna mi ha chiesto qualcosa; mi chiede qualcosa, insiste.
-Non me lo ricordo, dico a casaccio, ma già ha cambiato argomento e chiacchiera e china la testa verso il mio viso per vedere se tengo gli occhi aperti e devo tenerli aperti altrimenti mi chiederà mille volte se sono stanca e quanto sono stanca.
Così sgrano gli occhi e lei continua a guidare e a protendere la faccia verso di me, sempre più spesso, perché si è accorta che sto pensando e immagina quello che sto pensando e non vuole farmelo pensare, tutto molto sororico, tutto molto giannico, altra espressione di Carlo. Dio mio ho in testa solo espressioni di Carlo, penso come Carlo, forse ho sempre pensato così solo che non me ne accorgevo prima, ma adesso comincio a sospettare di avere chiuso con me stessa da quindici anni, il tempo passato insieme a lui.
-Mi senti? Cristina mi senti? Sto parlando con te ma tu dove sei?
Mi tiene gli occhi fissi addosso mentre la macchina sfreccia veloce.
-Guarda la strada per favore...guarda dove stai andando....
C'è una curva là in fondo e Gianna tiene gli occhi su di me.
-La curva...guarda davanti...
Grido come una pazza. È andata dritta, quasi dritta, se ne è accorta in tempo, è riuscita a tenere la macchina in strada, ma io ho visto quello che non volevo vedere, che non volevo più vedere.
-Fermati Gianna, voglio scendere.
Ma oramai ci sto dentro fino al collo: la curva mi veniva in faccia proprio come dieci giorni fa, tu che ridendo mi dicevi che ero troppo veloce, poi non ridevi più tanto, hai detto qualcosa, hai gridato qualcosa e io mi sono girata a guardarti perché non avevo capito se fosse uno dei tuoi soliti scherzi, ma la tua faccia mi ha fatto intendere che qualcosa stava andando storta e non guardavi me ma davanti a te, cosa stavi guardando? Ho girato la faccia un attimo prima che la macchina cadesse nel fossato, si ribaltasse non lo so quante volte, perché tutto girava là dentro e tu non gridavi né parlavi più e alla fine si è fermata sta maledetta macchina su un fianco, dalla tua parte e io stavo distesa sopra di te e avevo un male assassino al braccio sinistro e tu eri muto come un pesce e non ti muovevi. Poi ho visto il sangue, poco sangue, qualche goccia che scivolava fuori dalla tua bocca e non lo so quello che è successo, ma devo essere svenuta. Quando sono rinvenuta c'erano quei due uomini vestiti di una tuta arancione e stavamo dentro una macchina con tantissima luce, che correva con una sirena che suonava, ed era l'ambulanza. Quando ho chiesto di te non mi hanno risposto, Solo il giorno dopo un signore attempato della Polizia è venuto a dirmi quello che era successo e che tu non c'eri più e voleva che gli spiegassi cosa fosse successo e chi guidava l'auto perché non si capiva, ma di certo guidava suo marito, signora. Credo di avergli detto di sì, ma non so perché e adesso soltanto mi chiedo perché io me la sia cavata con un polso rotto e tre dita della mano sinistra rotte mentre tu sei già stato tumulato e io nemmeno ero presente.
-Devi vomitare Cristina?
Gianna ha fermato la BMW sul ciglio della strada. Devo avere una faccia da far spavento ai morti. Riesco appena ad aprire la portiera e a mettere un piede a terra. Aria fresca sul viso. La respiro a pieni polmoni per un paio di minuti.
-Dai Cristina, vomita che poi ti senti meglio.
-No. Andiamo a casa, ma tu va piano per piacere e guarda la strada.
-Stiamo andando a casa mia, replica Gianna.
-E perché?
-Abbiamo pensato Marco e io, che sia meglio così per un paio di giorni, intanto che ti riprendi un po'.
-E i tuoi figli?
-Paolo è a Londra coi suoi amici e Silvia sarà felice di averti tra i piedi. E poi c'è Ala che ti sta aspettando.
Ala? Mi ero dimenticata di lei. Ala, la meravigliosa setter irlandese, di pelo fulvo e lungo, quattro anni, ancora signorina. Che farà adesso che il suo amato padrone non c'è più? Perché Carlo era un cacciatore. Ho il garage pieno dei suoi fucili e delle sue munizioni. 
-Dovrò mettere ordine in quel casino che c'è nel garage.
-Adesso non pensarci. Andiamo a casa.
Stavolta Gianna guida lentamente, quasi troppo. Un camionista imbestialito ci lampeggia e ci suona dietro. Usciamo alla prima a destra. Dieci minuti dopo siamo a casa.
Mi vengono incontro mio cognato Marco che mi abbraccia e si impossessa del mio borsone. Silvia mi sbaciucchia su entrambe le guance. Sento le lacrime sul suo musetto. È la mia nipote preferita ed è parecchio sensibile. Già dalle scale sento Ala che abbaia. Mi butta le zampe anteriori sulle spalle e mi infradicia la faccia di vigorose linguate. Mi gira continuamente intorno mulinando la coda. Penso che si stia domandando dove possa essersi nascosto Carlo. Lo cerca sotto la mia gonna. Mi viene un groppo alla gola e a stento ricaccio indietro le lacrime, non mi piace piangere in casa d'altri.
Due giorni dopo Gianna mi ha riaccompagnato a casa mia. In macchina insieme a noi due Silvia, che si era rifiutata energicamente di andare a scuola quella mattina e Ala.
-Vuoi portare anche lei? ho chiesto a Gianna vedendola col guinzaglio di Ala in mano. Pensavo che volessi averla tu.
-L'ho tenuta finché sei stata in ospedale, ma lei appartiene a te. Ti farà compagnia.
Non ne ero proprio convinta. Ogni momento mi avrebbe riportato lui davanti agli occhi, ma d'altra parte ogni centimetro cubo di quell'appartamento era piano di Carlo. Non replicai a mia sorella, ma di sicuro accettai la nuova situazione molto a malincuore.
Così quel giorno stesso, appena Gianna e sua figlia se ne furono andate, iniziò la mia vita insieme ad Ala. Impiegò diversi giorni prima di rendersi conto che in nessuna stanza stava nascosto il suo amato padrone, ma continuò nel tempo a cercarlo, anche se non con la stessa intensità. Non credo che lo dimenticasse mai. Argo attese Ulisse per venti anni, Ala attenderà Carlo per tutta la sua vita.
Contrariamente a ciò che avevo immaginato portare Ala fuori perché facesse i suoi bisogni di primo mattino e alla sera, diveniva di giorno in giorno un tormento per me. Non so spiegarmi il perché, forse il percorrere i soliti luoghi di campagna dove la portava mio marito non era stata un'idea brillante, così presi l'abitudine di caricare Ala sulla Corrado e di andarmene ogni volta in posti diversi, dove tra l'altro sembrava che lei prendesse ispirazione per cercare qualcosa o qualcuno. Chi? Sempre Carlo, immagino. 
In uno di questi giri mattutini incontrai Franco, un avvocato amico di Carlo, che mi aveva visitato in ospedale. Era un cacciatore anche lui, aveva un Pointer stupendo dalla carrozzeria asciutta e flessuosa. Appena Ala li vide saltò letteralmente addosso a Franco uggiolando festosa. Solo un'annusata reciproca col Pointer, dimenando la coda, ma era Franco che Ala voleva festeggiare e da lui tornò velocissima. Sembrava gli chiedesse se sapeva nulla di Carlo. Di nuovo mi sentii le lacrime agli occhi. Mi scossi per quel che mi stava dicendo Franco.
-Mamma mia quanto è grassa sta cagna; le dai di sicuro troppo da mangiare e non la fai mai allenare.
Allenare? Come sarebbe a dire?
-Significa che la devi portare in giro per boschi e per valli facendola correre e sfogare per diversi chilometri, almeno dieci al giorno.
-E se scappa?
-Non credo che lo farebbe, però guarda che un cane da caccia deve essere allenato a cacciare per il suo padrone. Carlo era un perfetto addestratore e tu devi fare come faceva lui. Guarda dentro casa e magari pure nel garage e troverai un collare con attaccata una corda di venticinque metri. Arrivata sul posto prima di farla scendere dalla macchina le metti il collare e tieni la fune stretta con una mano. Lei non tenterà mai di scappare, stanne certa.
-Ma perché proprio venticinque metri? Non potrei usare il guinzaglio normale?
-La corda serve a farle capire la distanza che deve mantenere da te, cioè dal cacciatore. Se un cane caccia troppo lontano le prede che alza sono fuori tiro della tua doppietta. Venticinque metri sono la distanza ideale.
-Ma io non vado a caccia.
-Fatti il porto d'armi e poi la licenza di caccia.
-Non mi hai capito: io non andrò mai a caccia.
-Ma la tua cagna è nata per cacciare e soffrirebbe se non lo potesse più fare.
Non mi aveva convinto, ma avevo capito il senso del suo discorso. Anche gli allenamenti di Ala adesso. Però poteva distrarmi, chissà. Avevo bisogno di recuperare me stessa.
-E dove la porto? Voglio dire, dove vado ad allenarla?
-Sui monti tra Tolfa e Allumiere, oppure nel bosco di Bracciano. Sono posti che Ala conosce a memoria, ci andava due volte alla settimana con Carlo.
Ci ho dovuto pensare su per più di una settimana, con Ala che seduta sul posteriore sembrava osservare la mimica della mia faccia. Forse ero io a dare a questa creatura pelosa più intelligenza e sensibilità di quella che in effetti possedesse, ma mi piaceva pensare che potesse intuire quello che mi passava per la testa e dentro il cuore. Quando mi vedeva triste, intendo più triste del solito perché oramai la mia vita era priva di sole e di calore, lei mi veniva vicino e mi metteva il suo bel muso in grembo. Gli occhi che sollevava dentro i miei sembravano pieni di dolore. Ci guardavamo come due disperate: entrambe avevamo perduto la persona più importante della nostra vita.
Quando finalmente mi decisi a portarla al suo allenamento, prima ancora che mi vedesse in mano quel lungo guinzaglio i suoi occhi esprimevano tutta la sua gioia, e mi sembrò che il suo manto fulvo brillasse di luce. Per tutto il viaggio tenne la corda che avevo arrotolata stretta fra i denti: credo che volesse essere sicura che gliel'avrei messa finalmente al collo. Non so spiegare il perché ma mi sentivo meglio anche io a vederla nello specchietto retrovisore con quella corda in bocca. 
Diede solo all'inizio un paio di strattoni. Si voltò a guardare la mia reazione e ne fu sorpresa. Si aspettava gli improperi che immaginavo le avrebbe tirato addosso Carlo, ma a venticinque metri c'ero io già col fiato grosso perché Ala tirava da matti e facevo una gran fatica a starle dietro. Andava in tutti i canaloni, si infilava in tutti i varchi e io dovevo starle dietro al suo passo, che era a tratti troppo rapido per me. Fortunatamente ero equipaggiata come una vecchia cacciatrice di razza: stivaletti di cuoio, jeans, una camicia a scacchi bianchi e blu, che mi stava decisamente larga perché appartenuta a Carlo, una giacca leggera, una bisaccia contenente qualcosa da mettere sotto i denti io e anche Ala, che a un certo momento avrebbe avuto fame, e naturalmente una borraccia piena d'acqua. 
Non mi sono annoiata e non mi sono divertita; non mi sono esaltata e non mi sono depressa; non so se ad allenarsi fosse Ala condotta da me oppure io condotta da Ala, certo è che dopo un'ora circa in cui ho avuto l'impressione di avere la situazione sotto controllo le altre due ore di trottata ho solo tentato di seguire la mia meravigliosa cagna, che trascinava me ansimante di cespuglio in cespuglio, di fossato in fossato, senza mai voltarsi indietro, senza mai fermarsi per i suoi bisogni naturali. Sembrava sapesse che stava facendo un allenamento pesante e non aveva bisogno di chiedere nulla a me. Probabilmente Carlo l'avrebbe saputa trattenere e forse indirizzare dove lui avesse creduto più opportuno che andasse, ma io ero già più che soddisfatta di stare ancora in piedi e non lunga per terra trascinata da Ala.
Ad un certo punto la boscaglia terminava e dopo una breve scollinata si intravedevano tetti di case. Credetti che si fermasse e tornasse indietro; visto che continuava cercai di tirarla e di farle capire che la giostra si era fermata, ma lei sembrò aumentare il passo e fui costretta a cominciare a correre per starle dietro. Puntò diritta verso una della case che aveva un ampio cortile. Attaccati ai loro guinzagli una decina di cani da caccia, bracchi, spinoni, setter, pointer, si alzarono tutti sulle quattro zampe nel vederci arrivare. Sapevo che questi cani sono tutti giulivi e festosi anche con gli sconosciuti, ma ebbi l'impressione che rivedessero una vecchia conoscenza: dimenavano tutti freneticamente le loro code mentre Ala tirava dritto quasi senza degnarli di attenzione. Entrò nella casa, che era un'osteria come seppi dall'odore di cibi e vino che era nell'aria. Fu riconosciuta da tutti. Fece feste a tutti i suoi vecchi amici cacciatori, che erano anche gli amici di Carlo. Fu facile per tutti capire che quella femmina sudata, trafelata e inzaccherata di polvere, appesa alla corda di venticinque metri non poteva che essere la vedova del loro amico.
Non ne conoscevo nemmeno uno, ma loro sapevano tutti il mio nome; nessuno mi chiamò signora, ma ognuno si rivolse a me dandomi del tu. Ci mancava che mi dessero pacche sulle spalle, per il resto fui trattata come una vecchia camerata. Deve trattarsi di una tradizione del Corpo benemerito dei cacciatori: non si sono mai visti, si incontrano e si danno subito del tu e subito parlano dei loro cani, dei loro fucili e delle loro cartucce.
Mi diedero subito tutti i consigli possibili su come addestrare Ala.
-Carlo l'ha lavorata bene, non ti sarà difficile, ma tu falle capire quel che vuoi. Lei aspetta solo questo.
-Questo bosco è l'ideale coi suoi saliscendi, ma anche a Bracciano c'è un terreno molto buono.
-Puoi andare anche verso il mare, magari tra Cerveteri e Ladispoli, ma non portarla ad allenarsi sulla sabbia, che le fa male alle zampe e poi si distrae e fa solo confusione.
Mi offrirono il cibo che l'oste aveva preparato per loro e il vino rosso, che quando lo ingollavi ti mollava un cazzotto nello stomaco. La mia roba rimase nello zaino.
-Ho portato qualcosa per il cane, dissi e tirai fuori un fagottino mentre tutti allungavano il naso per vedere di che si trattasse.
-Nooooooo!
Fu un solo urlo.
-Carne di gallina no, sei matta!
-Cosa ha la carne di galletto che non va? chiesi esterrefatta.
-Se mangia quella carne dopo non ti riporta più le prede, se le pappa lei.
Questa non me la immaginavo proprio.
-Allora niente carne?
-Carne di vaccina puoi dargliela, ma niente volatili o carne di coniglio, perché la tua è una cacciatrice di lepri e la ciccia del coniglio ha il gusto e l'odore di quella della lepre.
Avevo imparato qualcosa di veramente importante. Anche se non pensavo di cacciare mai non potevo rovinare l'istinto di una bestia meravigliosa cui Carlo aveva insegnato certamente tutto e nel modo più giusto. Lo dovevo a lui se non altro.
Quando due ore dopo mi rimisi in cammino avevo imparato un sacco di piccole grandi cose e Ala sembrava consapevole che adesso era collegata tramite una corda di venticinque metri non più ad un'apprendista zuccona, ma ad una prossima maestra: trotterellava tranquilla qualche metro davanti a me e non mi strattonò più finché arrivammo alla macchina.
Da quel primo giorno tre volte alla settimana me ne sono andata in giro per boschi e per vallate inseguendo un setter irlandese da Allumiere a Tolfa, da Rota a Bracciano e Anguillara, da Cerveteri a Santa Severa fino a Ladispoli. Conosco oramai quella zona come la conosce Ala, che immagino ne sia consapevole, infatti reagisce immediatamente fermandosi quando tiro la corda, perché anche io devo riposare ogni tanto. Si siede sulle zampe posteriori e aspetta il mio segnale. Siamo diventate una squadra perfettamente affiatata.
Lo dicono anche gli altri, tutti i cacciatori della zona, perché oramai conosco tutte le osterie dove si riuniscono nelle pause dei loro allenamenti. Conosco il vino di ogni osteria e non faccio preferenze tra rosso e bianco. Mi sono venuti bei muscoli sodi sulle cosce e sui polpacci e non mi viene più il fiato grosso, anche se qualche volta azzardo camminate di oltre quindici chilometri abbondanti. E soprattutto ho ripreso gusto a stare in mezzo alla gente, a parlare con la gente di tutto, a vivere con gli altri. Il merito è tutto di questa stupenda femmina di setter irlandese che mi ha reinserito nel mondo attaccata all'altra estremità del guinzaglio.
Dimenticavo una cosa importante: ho fatto la domanda per il porto d'armi per una doppietta a canne sovrapposte e un fucile a ripetizione, il Franchi di Carlo; ho fatto anche la domanda per la licenza di caccia. Al Comune erano tutti amici di Carlo e mi hanno assicurato che i documenti arriveranno al più presto. Intanto su in casa ho portato l'apparecchiatura per farmi le cartucce da sola, come faceva Carlo, come fanno i migliori. Franco mi ha insegnato ad usare l'apparecchiatura, mi ha segnato i pesi della polvere e dei piombini e la differenza tra i vari calibri e adesso appena ho un'ora libera preparo cartucce. Ce ne ho quasi trecento, ma devo arrivare a cinquecento per il giorno dell'apertura della caccia. Mentre lavoro Ala controlla che tutto sia fatto con ordine, come faceva il suo padrone, il primo, perché adesso lei e io andiamo sempre insieme, anche a spasso, ma con un guinzaglio normale, si capisce.


***
Cristiana, l'ispirazione per questo racconto me l'hai data tu con quella meravigliosa frase, che tu certamente ricordi. Lo dedico a te, si capisce.




lunedì 8 dicembre 2014

LE VECCHIE ROTAIE


Le vecchie rotaie si arrampicano ancora
lungo il costato della montagna,
parallele e arrugginite
dove le avevo lasciate avvinghiate al suolo
lucide e vibranti. Ogni traversina un minuto
delle mie giornate di lavoro,
un pensiero, una preghiera.

Transfuga ogni ricordo adesso
come calce sbiadita al sole.

Prendevo un treno ogni mattina e tu restavi
in silenzio ad aspettarmi al ritorno
nella giovane casa da sposa
già in attesa di un bimbo.
Nostra figlia era già viva dentro me,
insieme a me sgambettava
su quelle rotaie e io ridevo con lei
a occhi chiusi.

Ora che nostra figlia rischia
di diventare nonna ogni momento,
quel treno non viaggia più nemmeno
nelle mie immaginazioni.

Tu aspetti ancora;

io mi trastullo con le mie fantasie,
felicemente appagato nei miei sforzi visto
che ho impiegato una vita per essere
quello che sono e respirare
e ridere e piangere come un bambino.

Maximiliansau, dicembre 2014

martedì 2 dicembre 2014

IL TRIONFO DES GRAUEN STARS


Che sono in pensione da quindici anni si vede dall'insofferenza ad alzarmi di mattina all'alba, quando cioè l'unica luce visibile fuori dalla finestra è quella del lampione di fronte a casa nostra. Smoccoli, sbraiti, ma se si deve fare lo fai e basta. Si tratta di percorrere una ventina di chilometri, infilandosi nell'imbuto del traffico mattutino sul ponte sul Reno, tappo malefico che non si smentisce mai, si tratta di infilarsi nel secondo imbuto all'ingresso del centro di Karlsruhe, tappo ancora più cospicuo del primo e di arrivare poi a Durlach, la frazione cittadina più lontana, dove nel mezzo di un centro caotico in cui non trovi un buco per posteggiare nemmeno se ti tagli le vene sorge la Clinica Oculistica più ricercata e funzionale dell'intera zona, Clinica che ha un nome fatidico, ARGUS, come il cane di Ulisse, che attese il suo padrone per venti anni, divenne decrepito e cieco e lo riconobbe a fiuto, morendo di gioia subito dopo. Bellissimo, commovente, ma metteteci qualche parcheggio privato per gli ospiti giornalieri, porcaccia vacca.
Basta, dopo aver girato per stradette e viuzze per cercare di mollare la macchina nel primo spazio che trovavo, non avendolo trovato si ricomincia la giostra da capo. Al terzo tentativo, dopo aver setacciato ogni angolino, finalmente qualcuno si è levato dai piedi lasciando un buchetto libero a metà tra strada e marciapiedi, una decina di metri da un semaforo. Per fortuna siamo a un centinaio di passi dall'ingresso della Clinica, la mia signora non dovrà fare molta strada a piedi. È provata da una notte quasi insonne e tesa come una corda del violino di Ughi per l'ansia dell'imminente operazione. Anna Maria soffre di una Grauer Star, come chiamano i crucchi la cataratta. Io ho fatto le due operazioni una decina di anni fa e mi sono sgolato da oltre tre mesi, da quando cioè le hanno fatto l'appuntamento per estrarle il primo cristallino malato sostituendolo con uno di materiale acrilico modernissimo, per farle intendere che si trattava dell'intervento operativo più facile ed innocuo, e che sarebbe andata così e cosà, e che sarebbe successo questo e quest'altro, e che lei nemmeno si sarebbe accorta di niente. Ma la fifa di Anna Maria era più consistente di quella che aveva di volare. "Ecco, le dicevo, ti capiterà come per il tuo primo volo; avrai il cuore in gola fino a che l'aereo non toccherà terra, ma dopo non vedrai l'ora di volare di nuovo. Così per questa operazione. Per il secondo occhio entrerai dentro fischiettando". Credo che nemmeno mi desse ascolto, concentrata com'era a contare i battiti velocissimi del suo cuore.
Così abbiamo percorso sottobraccio quelle decine di metri che ci separavano dal traguardo fatidico. Gente è una soddisfazione non da poco dopo cinquantun anni di vita coniugale sentire che la fanciulla del tuo cuore si aggrappa a te come un naufrago a un tronco marcio che la faccia galleggiare. Provare per credere, ma dà un senso alla vita se la tua donna ancora crede nella tua protezione mezzo secolo dopo.
La sala di ricezione e d'attesa della clinica era piena come quella della stazione Centrale di Milano nei giorni prossimi alle feste. La mia prima impressione. La seconda fu che mancava il brusio festoso della stazione Centrale di Milano nei giorni prossimi alle feste. Imperava il silenzio attonito di chi è in attesa di un evento, anzi dell'Evento; gli occhi sgranati, i volti tesi in una unica direzione, quella da cui di volta in volta compariva personale medico di sala operativa -tute azzurro forte, cuffia di plastica verde a coprire i capelli, mascherine bianche elastiche a nascondere la bocca e il naso-, oppure personale paramedico di sala -tute bianche, tutte e solo donne-, oppure infermiere addette alla ricezione, vestite con normalissimo grembiule bianco, efficienti, gentilissime e rigorosamente sorridenti.
Osservando meglio gli astanti in attesa si vedeva un minimo comun denominatore: la calvizie negli uomini e le rughe sui volti delle donne, le cui chiome erano tutte sotto regolare tintura. Ma le rughe non si possono tinteggiare, solamente stirare e a carissimo prezzo. Insomma non si trattava di un raduno di reduci della seconda guerra mondiale, ma un'esposizione di vecchietti più o meno scassati e tutti inequivocabilmente bisognosi di rapido intervento per meglio potersi ammirare nello specchio del bagno. Insomma cecati.
Improvvisamente è iniziata la chiama, a due a due, come una volta in caserma dopo il rancio, quando venivano affidati gli incarichi per la giornata: ce n'era per tutti e nessuno la faceva franca. Così qui: primo paziente a destra, secondo a sinistra; seduti su sedie girevoli, testa alta, gocce nell'occhio sul quale intervenire e cartellino fissato sul petto a destra col proprio nome e un RA, cioè rechtes Auge, occhio destro; sul petto a sinistra col proprio nome e un LA, cioè linkes Auge, occhio sinistro. Tornare ai propri posti, avanti i prossimi due. Tutto assolutamente marziale e non perfettibile. Non era ancora finita la punzonatura dei candidati della giornata, che già i primi due venivano accompagnati da personale paramedico di sala oltre la nostra visuale in quella che certamente era la sala di Betäubung e di Vorbereitung, cioè di anestesia e di preparazione del paziente, certamente l'anticamera delle OP, sale di operazione. Nessuna lamentela, nessuna resistenza. Tutto liscio come l'olio. Un'ora dopo circa i primi due tornavano in sala d'attesa accompagnati da personale paramedico sorridente e mormorante raccomandazioni, e venivano portati ai tavoli ovunque ci fosse un posto libero e immediatamente rifocillati con caffè o the e Bretzel molto fresche. Rimanevano circa mezzora, subivano un accurato controllo post operatorio, poi garbatamente venivano congedati. Una perfetta catena di montaggio.
"Come al mattatoio con le vacche" esclama Anna Maria, che comunque l'ha presa bene, tanto bene direi perché se ne sta tranquilla col suo cartoncino giallo sul lato sinistro del petto.
Alle 11,20 tocca a lei oltrepassare le prime due soglie e arrivederci mia bella signora.
Da quel momento sto a capo eretto a fissare il soffitto. Leggiucchio una rivista dove si parla di qualcosa di certo interessante, ma che non mi tocca per niente; evito con una certa dolce violenza di rispondere al settantenne accompagnatore di una signora piuttosto in ciccia che è entrata subito dopo mia moglie, che vorrebbe con una conversazione esorcizzare la sua paura, ma io mi devo curare della mia e del pensiero che mi folgora trasversalmente la cabeza "speriamo che resti calma, speriamo che resti calma, Gesù se ci sei falla restare calma", perché l'intervento dura un quarto d'ora ma è la preparazione che potrebbe essere non tollerabile dal mio Cuor di Leone, meglio dire dal mio Angsthase, coniglio pauroso, perché è nell'attesa che si sublimano gli eroi e si cagano addosso i fifacchioni.
Alle 12,30 penso che salterò su e correrò in quella sala se in cinque minuti non ne viene fuori. Fortuna per loro che neanche due minuti dopo esce fuori la compagna della mia vita con un vistoso cerottone che le copre l'intera orbita sinistra.
Stessa solfa degli altri. Condotta per mano da un'infermiera fino al più prossimo tavolo libero, foraggiata di caffè molto buono a suo dire e un grosso Bretzel.
È finalmente calma. Mi fa un mezzo sorriso. "Non ho sentito niente". Molto bene. "Avevi ragione tu, era una cosa facile. Per il prossimo occhio dormirò tranquilla la sera prima".
Fa piacere sentirsi dare ragione di tanto in tanto. Apprezzo molto e ringrazio, e visto che sto proprio benissimo azzardo un complimento.
"Ti sta bene la benda, sie passt zu deinem Gesicht".
Sì, sta proprio bene sulla sua faccia.
Me la riporto a casa e sono proprio orgoglioso di lei e del suo coraggio.


***




venerdì 28 novembre 2014

UNA DOMENICA IN UN SEGGIO ELETTORALE TEDESCO

Capita ogni quattro anni e ormai è una tradizione. Mi arriva a casa un invito del Sindaco a presenziare nell'unico seggio elettorale del paesino in riva al Reno dove abito per l'elezione del Consiglio comunale per l'emigrazione e l'integrazione. Finora ho sempre accettato anche perché sono stato tra i primi eletti venti anno fa del primo Ausländerbeirat, come si chiamava allora, cioè Consiglio aggiunto degli stranieri, aggiunto al Consiglio comunale cioè, con nessuna possibilità di intervenire nelle decisioni. Solamente il Vorsitzender, il presidente dell'Ausländerbeirat poteva partecipare e parlare, ma senza diritto di voto. Insomma una vaccata. Ricordo che ti stavano a sentire come si ascolta un bambino ritardato, ti facevano la carezzina, ti davano un lecca lecca e finiva lì. Poi c'è stato il primo cambiamento, in peggio. Nel consiglio degli stranieri venivano non eletti, ma designati dal sindaco due elementi di appoggio, tedeschi al 100%, che dovevano consigliare, ma che di questioni tipicamente straniere non avevano la minima idea, cioè l'avevano ma da tedeschi e quindi vi potete figurare il casotto. Fu allora che io uscii dall'Ausländerbeirat, mi dimisi, adducendo come motivo il fatto che la presenza ingombrante di zucconi impediva un normale dibattito. Di nuovo un cambiamento e questa volta in meglio. Via i tedeschi al 100%; potevano partecipare anche stranieri naturalizzati tedeschi; i consiglieri potevano anche tutti e sette -tanti erano in base alla popolazione di Ausländer nel Comune- con diritto di voto al Consiglio comunale. Ma io avevo ormai die Nase voll, come si dice qui, cioè il naso pieno, insomma i maroni gonfiati di queste storie e declinai l'invito dei miei amici. Ma partecipai alle votazioni sempre come elettore e come rappresentante di lista al seggio. 
Questa volta ero l'unico masculo insieme a quattro fimmene, e l'unico Ausländer, anche se tra le quattro una era una turca nata in Germania e naturalizzata tedesca anche in virtù dello jus soli, che qui è fondamentale e che -bada bene- si chiama esattamente così, in latino. Hai capito Salvini?
Preliminari, apertura del seggio ufficialmente alle 13,00 e attesa dei 708 stranieri abitanti in Maximiliansau. Alle 13,30 il primo avente diritto votava, cioè Vincenzo Iacoponi. Fino alle 15,00 ero l'unico elettore che avesse adempiuto al suo diritto/dovere. Poi sono arrivate mia moglie e mia figlia. Insomma tre voti, tutti e tre da un'unica famiglia, nemmeno un turchetto piccolo così. 
Ma io lo avevo previsto. Qui la regola dice che se non votano minimo il 10% degli aventi diritto il voto non è valido. Non avevo visto nemmeno un cartellone che indicasse la data del voto e per che cosa si votasse; non era stata fatta praticamente nessuna propaganda, se ne erano fregati, per pigrizia alcuni, altri -quelli soggetti alla Moschea e al locale rappresentante dell'Islam- perché costui non vuole gli Ausländerbeirat, o i Consigli aggiunti per l'immigrazione e per l'integrazione. Perché? Perché qui i turchi sono il 90% della popolazione straniera e il campione dell'Islam li vuole sottomessi a lui e all'Islam che lui predica e non ai cattivoni cristiani. Sono espressioni sue non mie.
Quando facemmo il primo Ausländerbeirat, venti anni fa, facemmo stampare manifesti, tanti, e li mettemmo agli angoli delle strade. Andammo casa per casa a sollecitare il voto. Votò il 46% dell'intera popolazione straniera. Si astennero solo i fedelissimi della Moschea, ma furono battuti. Allora nella successiva elezione quattro anni dopo fecero una loro lista e pensavano di vincere. Riuscimmo a trascinare anche i paralitici a votare e vincemmo per 219 voti di scarto. Il pacioccone dell'Islam, del suo Islam naturalmente, fu trombato e se la legò al dito. Quando quelli che avevano fatto tuoni e fulmini nelle prime tre elezioni si allontanarono per motivi vari -un paio sono nel frattempo morti, altri sono tornati in patria- fece la voce grossa e impedì con successo che la gente venisse a votare. 
Alla chiusura del seggio, alle ore 18,00 avevano votato nove elettori, di cui cinque erano italiani e due olandesi. Persino due turchi, ma di quelli che non mettono piede nella moschea. La donna infatti ostentava una splendida capigliatura al vento.
Nove su 708 aventi diritto, cioè 1,27%, cioè votazione nulla e arrivederci fra quattro anni.
Personalmente ci sono rimasto male, come straniero, che gente straniera come me avesse così beceramente voltato le spalle al proprio diritto di esprimere un parere liberamente. Ma noi stranieri in certi casi sappiamo farci conoscere dovunque andiamo, purtroppo. 

sabato 22 novembre 2014

UNA DONNA DIVERSA DA TUTTE LE ALTRE



Marito prima di diventare Marito era Giovanotto spensierato, caciarone e casinista. Giovanotto aveva successo con tutte le ragazze non si sa bene se solo perché Giovanotto era un figo della madonna, oppure perché aveva la faccia come il culo che lo faceva essere il miglior dragueur della sua città; una rete a strascico dove rimanevano tutte impigliate. Giovanotto viveva a sbafo, perché tutti i suoi amici avevano bisogno di lui per agganciare una ragazza e allora offrivano sigarette, biglietti per cinema gratuiti e qualche volta anche la cena. Nonché la benzina per la macchina -il pieno si capisce- per andare a beccare la fanciulla a Santa Severa o a Ladispoli o a Bracciano e perché no a Viterbo. Perché Giovanotto non prendeva mai una portata in faccia, ma anche i picchi più impervi diventavano discese dopo che lui ci aveva messo le grinfie sopra. 
E a Viterbo qualcuna ancora piange.
Finché non incappò in Ragazza romana, una gnocca imperiale ritenuta una corazzata inaffondabile. Giovanotto la affondò ma colò a picco insieme a lei. Insomma si prese una cotta di quella cattive, che non gli fece più vedere oltre il proprio naso. Vedeva il mondo con gli occhi di lei. Ragazza romana voleva l'anello nuziale e lo voleva in fretta. Non si è mai saputo come riuscì a convincere Giovanotto, ma lo convinse. E questo è un fatto.
Un altro fatto è che le donne, anche se hanno una cotta che le faccia sternutire dall'alba al tramonto, rimangono sempre coi piedi piantati per terra. Così Ragazza romana si convinse un poco alla volta che Giovanotto mai l'avrebbe sposata, ma che anche se fosse riuscita a trascinarlo all'altare avrebbe avuta una vita d'inferno, vista la facilità con cui lui rimorchiava. Non poteva dimenticare come aveva fatto a conquistare lei. Così lo piantò -unica a farlo al mondo- e sposò un maggiore della G.d.F. ventun anni più vecchio di lei. Brutto come la fame, ma docile come un gattone.
L'unica cosa di buono che Ragazza romana lasciò in eredità a Giovanotto fu un stelletta da sottotenente di artiglieria sulle spalline di una diagonale. Era riuscita con le sue raffinate arti a convincerlo a diventare ufficiale, ancorché di complemento, perché a lei piacevano gli uomini in uniforme, come dimostrò sposando il suo dinosauro.
La stelletta in sé non sarebbe poi stata gran cosa se non fosse servita a trasferire Giovanotto in un bel paesetto in provincia di Udine. Fu lì, in quel paesetto silenzioso e tranquillo che Giovanotto fece l'incontro che non aveva previsto. In fondo non doveva proprio andare come andò. Una domenica mattina un collega, compaesano di Giovanotto, andò a rompergli le palle con la richiesta urgente di un piacere.
-Tu sei amico mio e mi devi dare una mano, disse l'amico di Giovanotto a Giovanotto.
C'era poco da fidarsi: quando un amico, un collega, un compaesano esordisce con la lagna dell'aiutino ci puoi scommettere che di una fregatura si tratti.
-Che vuoi da me a quest'ora della domenica? Chiese Giovanotto.
-Ho una ragazza molto carina. Questa sera esce con un'amica. Mi dovresti dare una mano e tenere buona l'amica mentre io concludo con la mia ragazza.
Mamma mia! Quando capitano queste incombenze la ragazza da tenere buona è racchia come un topo di fogna, sempre, sempre, sempre.
-Che ha questa? Un occhio di vetro? È zoppa? Le puzza il fiato? Perché proprio io?
-È bellissima, credi a me, ma...
-Ma che?
-Non ci sta con nessuno e poi è alta.
-Quanto alta? È una canna, una pertica, una spilungona?
-Quanto la mia.
-Insomma una mezza canna.
La ragazza del suo compaesano l'aveva vista un paio di volte.
-Ha la puzza sotto il naso? Chiese Giovanotto.
-No, ma te l'ho detto, non ci sta.
Giovanotto pensò che sarebbe stata una serata schifosa, ma volle tentare ancora.
-Fammela vedere da lontano. Non ti prometto niente. Se è decente stasera vengo, sennò ti trovi un altro.
-Vanno a messa a mezzogiorno. Andiamo anche noi e io te la faccio vedere.
In chiesa entrarono per ultimi. Erano in divisa e si dovevano dare un contegno.
-Dov'è? Chiese Giovanotto.
-In fondo a destra. La tua ha un cappotto chiaro.
Giovanotto si girò lentamente, guardando il soffitto con le dorature, poi un altare a sinistra, poi quello a destra. Rapidamente girò il collo e vide il cappotto chiaro.Ragazza friulana stava piegata con la testa coperta da un piccolo scialle. Tutto quello che Giovanotto poté vedere erano le gambe dalle ginocchia alle caviglie.
-Ok, vengo.
Quel che aveva visto gli era bastato.
In effetti Ragazza friulana era più gnocca imperiale questa di quella che lo aveva piantato per il maggiore brutto della G.d.F. e poi parlava a bassa voce e non sembrava avere le unghie della tigre.
Si ritrovarono tutti e quattro quella sera stessa in una sala da ballo. Giovanotto fece finire la serata che peggio non si poteva. Fu arrogante, sborone e villano. Nemmeno lui sapeva spiegarsene il perché. Ragazza friulana  alla fine aveva la nausea di lui. Disse all'amica di non chiamarla più quando c'era quel brutto tipo.
Ma a Giovanotto era rimasta nella testa. Così andò da solo due giorni dopo a casa di Ragazza friulana. Lei ancora oggi non sa spiegarsi perché uscì quella sera, ma uscì con Giovanotto. Forse curiosità, forse destino, forse perché l'erba cattiva attira più di quella buona. Giovanotto sapeva di stare a giocarsi le ultime carte e se le giocò alla grande. Si presentò così com'era, senza pompa, senza sbruffi, semplicemente quello che era veramente, non il formato speciale ragazze da rimorchiare. Forse fu quello che mandò in tilt la volontà di Ragazza friulana che voleva certamente dirgliene quattro e mandarlo afc.
Sta di fatto che quella sera iniziò una storia, anzi la loro Storia, che dura ancora oggi, pensa te.
Tutto sommato Giovanotto doveva ringraziare di tutto Ragazza romana, di averlo lasciato in asso e di averlo convinto ad indossare una divisa da ufficiale. Solo così Giovanotto aveva potuto incontrare Ragazza friulana, e mettersi con lei.
Amore a prima vista? Non si sa. Andò avanti senza fatica né intoppi fino a luglio, quando Ragazza friulana andò in vacanza ad Auronzo nel Cadore mentre Giovanotto si cuccava un Campo militare di esercitazioni di un mese sulla spiaggia di Bibione, che allora era infestata di zanzare e di militari.
Ebbe un mese di tempo per meditare in solitudine assoluta e capire qualcosa. Cosa? Che Ragazza friulana le mancava come manca l'aria da respirare. Quando ritornò dal Campo Giovanotto si recò a trovare subito Ragazza friulana. Ci andò col cuore in gola. Chissà se lei aveva provato la stessa sua sensazione, chissà se aveva voglia di vederlo quanta lui di vedere lei? Lo capì al primo sguardo. Erano pari.
Ecco, quando Giovanotto, diventato Marito poi Padre poi per ultimo Nonno, prova a pensare il momento in cui loro due si erano veramente innamorati Giovanotto è sicurissimo: è successo quella mattina della prima settimana di agosto nella cucina a pianterreno della casa di Ragazza friulana, poi diventata Moglie poi Madre poi Nonna.
Giovanotto, o meglio Marito Padre Nonno, è certo di essere un uomo fortunato. Infatti la bellezza era l'ultima delle qualità di Ragazza friulana, Moglie Madre Nonna. Innanzi tutto la spontaneità, la sincerità, l'educazione, la capacità di accogliere, di dare amore senza chiedere niente in cambio, di donare sicurezza nei momenti duri e tristi, di assorbire tutte le sfumature del carattere del suo uomo, carattere difficilissimo da sopportare, senza fargli pesare lo sforzo che stava facendo ogni volta, di accoglierlo ogni sera al suo rientro in casa con un sorriso e una carezza. Vi pare poco? E mai una protesta, mai un sacrosanto vaffa, mai una girata di schiena o un'alzata di spalla. E dire che i guai erano cominciati subito dopo essersi sposati, al ritorno dal viaggio di nozze, quando Marito si rese conto che sul posto di lavoro gli avevano preparato un trucco schifoso per cui dovette immediatamente cercare un altro lavoro, con Moglie che già aspettava la prima bambina.
Così cominciarono le prime vicissitudini, se volete li potete chiamare i primi guai, che contraddistinsero la vita coniugale di Marito, ex Giovanotto, e Moglie, ex Ragazza friulana. Forse furono proprio quelle vicissitudini che li strinsero e fecero loro superare ostacoli per altre coppie insormontabili. Ci sta pure il fatto che furono sempre soli, lontani dai parenti più stretti di lui e di lei. Dovettero inventarsi il mestiere di marito e di moglie. Marito non lo imparò tanto bene, anzi fa sbagli ancora adesso, ma Moglie lo imparò in fretta, insieme al mestiere di mamma. Quattro figli mise al mondo Moglie e tutti e quattro se li tirò su da sola, mentre Marito faceva salti mortali per portare a casa il necessario. Ma non ce l'avrebbe mai fatta se. ritornando a casa, non avesse trovato un atmosfera accogliente e serena, malgrado i marmocchi e le difficoltà della vita. Soprattutto quando si trovarono in una nazione diversa dalla loro, dove dovettero ricominciare tutto da capo.
Oggi, a distanza di cinquantun anni e passa da quel 5 maggio 1963, Marito pensa che quello sia stato veramente il giorno fortunato della sua vita. Forse Moglie non la pensa esattamente così, visto che tutti gli altri pretendenti -ne aveva in tutto il Friuli se avesse voluto- le avrebbero fatto vivere una vita certamente più tranquilla e meno agitata di quella che le aveva messo sul piatto ogni giorno Marito.
Potrebbe avere ragione lei, ma Marito da buon maschio egoista continua a pensare che lei in fondo se tornasse indietro lo rifarebbe. Almeno Marito lo spera, ma non lo chiede a Moglie.
Tante volte Moglie ha detto a Marito che lui è un uomo diverso da tutti gli altri. Lo dice di sicuro per rimproverargli la mancanza di tante qualità che una donna ha piacere di trovare nel proprio uomo, ma intanto lo dice. Insomma Marito è un uomo diverso da tutti gli altri.
Una cosa è sicura: Moglie è donna diversa da tutte. Per questo è sempre ancora al suo posto. Marito ha avuto fortuna? Macchè, Marito ha avuto proprio un gran culo!

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venerdì 14 novembre 2014

CRONACA DI UN' ALTRA GIORNATA DA DIMENTICARE

Moglie alle sette e mezza del mattino sempre sveglia. Marito ronfa. Moglie sbuffa. Marito ronfato tutta notte, come ogni notte passata, come ogni notte futura. Nessuna speranza di miglioramento. Marito ronfa e basta. Anche di giorno, davanti a TV. Dopo un po' ronfa. Marito dice che spettacoli scelti da Moglie monotoni e noiosi. Marito bugiardo. Marito ronfa anche durante partita di calcio a SKY. Marito guarda sua squadra su SKY e ronfa. Intanto SKY incassa quattrini di abbonamento in Italia. Da conto italiano intestato a Moglie. Allora Moglie paga ronfate di Marito. Brutta bestia Marito in genere. Chi ha inventato Marito? Ma uomini no? Tutto preparato per fregare donne. Sempre tanto carini e affettuosi prima. Regalato fiori e pensierini anche Marito, prima di essere Marito. Dopo dimenticato. Ogni tanto porta fiore bello bello. Orchidea. Qui gatta ci cova. Quando Marito in genere porta regalo tu non sai ma lui sa cosa ha fatto schifosa assai.
Intanto Marito ronfa di brutto. Moglie non aspetta più. Rumore insopportabile. Moglie butta gambe fuori da letto. Esce disperata da camera. Cucina da riassettare, perché Marito ieri sera rimasto alzato per vedere TV, programma sportivo. Schifezze viste e riviste, commenti stupidi sentiti mille volte. Lui rimasto. Lei cercato di dormire.
Moglie riassetta cucina e prepara caffè e toast. Prepara anche tavola. Marito assente come sempre. Caffè pronto. Toast pronti. Marito finalmente in piedi. Sentito odore di mangia.
Marito attraversa stanza da pranzo come zombi. Va avanti, va indietro, torna avanti, torna indietro. Sbadiglia facendo rumore di animali vari. Va verso bagno. Prima di entrare si ferma. È concentrato, molto concentrato. Forse pensa. Possibile? A quell'ora del mattino Marito pensa? Marito scoreggia. Ah, ecco, finalmente capito concentrazione. Mai scoreggiare dentro bagno, sempre scoreggiare fuori di porta del bagno. Rituale pagano propiziatorio.
Marito resta dentro bagno sempre minimo quarto d'ora. Una volta guardato bene. Marito dimenticato porta semi aperta. Marito guarda dentro specchio, fa bocche, fa boccacce, tante, sempre diverse. Marito parla con specchio, non con figura dentro specchio. Marito rimcoglionito parla con se stesso? Forse, nessuno capisce, nemmeno Marito, che poi nega tutto. Moglie finisce toast e caffè. Marito ritorna. Cerca toast. Guarda Moglie con sguardo severo.
-Dove sono i miei due toast?
-Te li fai da solo così li bruci tu.
Nemmeno coraggio di replicare. Marito va a farsi due toast.
Torna e imburra toast. Troppo burro. Scola su tovaglia. Marito pulisce con manica. Come sempre. Inutile sprecare fiato.
Marito finito. Si capisce da rutto gigantesco.
Adesso Marito entra dentro sua stanza di lavoro e accende PC.
Moglie adesso sa che avrà due ore di tempo per fare sue cose tranquilla. 

Marito sempre davanti al PC. Moglie intanto fatto tutto quello che ogni giorno deve fare. Riordinato cucina. Portato panni da lavare in cantina nel vano lavatrici. Messo panni dentro lavatrice. Acceso lavatrice. Entrata nel box privato. Presa cose che le occorrevano. Tornata in casa. Marito sempre chiuso in stanza di lavoro al PC.
Moglie riempie lavastoviglie. Accende e avvia lavastoviglie. Incomincia a preparare pranzo.
Mancano cose. Moglie va in stanza di lavoro e dice a Marito che mancano cose e che si deve andare al Supermercato. Marito grugnisce. Forse ha capito. Moglie ripete paziente che occorre andare nel Supermercato.
-Adesso? Chiede Marito.
-Sì, adesso.
-Allora mi vesto.
Significa adesso finisco qui, poi incomincio a vestirmi. Moglie si veste in cinque minuti. Marito ancora fermo davanti a PC.
-Allora? Sbuffa Moglie.
-Ok! Ok!
Marito finalmente comincia a prepararsi. Mezzora dopo entrano nel supermercato. 
Marito spinge carrello subito verso zona franca. Sempre quella. Rapanelli freschi, frutta, sempre la più cara che c'è, sempre quella che già è in casa, che Marito non vede mai. E soprattutto vino. Prende subito bottiglia di Chianti Gallo Nero. L'ultima volta era Nero d'Avola. La prossima Barbaresco. Moglie non può sbagliare. Marito compra sempre gli stessi vini rossi. Mai bianchi. Solo rossi. 
Moglie deve andare a prendersi carrello perché serve a lei. Marito nemmeno se ne accorge. Dopo Moglie vede che Marito gira come matto cercando carrello. Finalmente vede lei e corre con occhi sgranati. Poi vede finalmente carrello e capisce. Ma non dice niente. Fa finta di niente. Moglie non chiede perché occhi sgranati. Sarebbe troppo cattivo. Però sarebbe carino ascoltare la scusa. Marito molto fantasioso nel trovare scuse, bisogna ammettere.
Arrivati alla cassa Marito ha molto da fare per rimettere la cose acquistate dentro il carrello. Non paga mai. Non può fare due cose insieme. Nessun uomo può fare due cose insieme, solo una per volta, guai solo tentare due cose. Impossibile. Perché uomini hanno due mani? Moglie ha scoperto perché. La destra per scaccolarsi il naso e la sinistra per grattarsi le palle. Qualche volta invertono: destra per palle, sinistra per caccole di naso.
Forse in un altro sistema solare pianeta con uomini forniti di terza mano che possono anche fare due cose insieme fatte bene. Però a dire il vero sono campioni del mondo di grattate di palle e di scaccolamento del naso. Qualcosa sanno fare, vivaddio.
Tornati a casa Moglie subito in cucina a preparare pranzo. Marito di nuovo davanti a PC.
Alle 13:30 si mangia. Una decina di minuti prima ha sentito odore nuovo e arriva Marito. Sempre la solita domanda:
-Cosa si mangia oggi?
Moglie vorrebbe rispondere "cazzi frittodorati" ma ha avuto educazione religiosa da mamma e nonna un po' all'antica e preferisce tacere.
Marito tocca tutto, annusa tutto, scodella zuppiere che bollono, fa cadere acqua di vapore per terra, non riesce a capire di togliersi dai piedi.
-Prepara il tavolo! Ordina Moglie.
Finalmente si decide. 
Marito mangia facendo rumori con bocca forti assai. Beve vino da bicchiere a calice con succhio tipo formichiere. Moglie guarda schifata lui. Marito guarda TG1 come fosse bibbia o film di De Sica. 
Finito pranzo di corsa su divano. Due minuti dopo occhi chiusi, testa indietro, bocca aperta. Un attimo dopo inizia il ronfo. Moglie gli dà spinta con braccio. Marito fa piccola serie di ronfetti. Guarda TV. Due minuti dopo di nuovo testa indietro, occhi chiusi, bocca aperta e ricomincia il ronfo. Moglie spegne TV, si alza e prende libro. Marito non si accorge di  niente e va avanti col ronfo.
Per cena pasto frugale. 
-Hai già mangiato pasta a pranzo. Risponde Moglie a Marito che chiede perché così poco.
Dopo mangiato c'è TV della sera. Programmi tutti uguali. Ronfo sempre uguale. Praticamente Marito ha ronfato tutto il giorno. Appena posa il culo sul divano lui ronfa, tempo due minuti. Capace di resistere in ronfata anche tutta la serata. Incredibile record che batte ogni sera, prolungando nel tempo la ronfata e  aumentandone i decibel.
Passate le 23 Moglie si alza e si prepara ad andare a letto. Marito sembra finalmente sveglio. Qualche programma interessante. Moglie lavati denti va in camera, si spoglia e si infila sotto il piumone. Moglie sa che dovrà combattere con la sua insonnia almeno per un'ora. Verso mezzanotte arriva Marito. Si spoglia velocissimo al buio e si infila sotto il piumone. Per un paio di minuti fa strani suoni con la bocca spalancata. Poi tace. Pochi secondi dopo Moglie sente ritmico ed infallibile il ronfo notturno.
Maledizione! Questo cane non fa niente tutto il giorno e a letto piomba nel sonno profondo come se avesse scavato una galleria attraverso il Monte Bianco. Io che lavoro senza pause non riesco a dormire e a riposarmi. Moglie guarda da parte di Marito e pensa che forse in un'ora riuscirà a dormire anche lei come il sacripante che le sta al fianco.







martedì 11 novembre 2014

CRONACA DI UNA GIORNATA QUALSIASI

Alle nove del mattino come al solito Moglie si lamenta. 
-Anche oggi hai fatto bruciare toast. Non sai proprio dosare il calore di tostatrice.
-Vuol dire che da domani ci pensi tu.
-Anche a questo devo pensare io?
Marito rinuncia a rispondere. Fiato sprecato. Muso sul giornale, l'articolo non potrebbe essere più interessante.
-C'è da andare a portare fuori i sacchi gialli della plastica, dice Moglie. Fra poco passano a ritirarli.
Marito finisce di bere caffellatte. Rutta veloce.
-Dove cavolo stanno stavolta?
-Al solito posto, in cantina, dove sono sempre stati.
Marito tace. Inutile ricordare a Moglie che l'altra settimana erano nascosti sotto il sottoscala, Moglie negherebbe con mano su Bibbia. Marito si alza e scende in cantina. Guarda come ha riempito 'sti sacchi, proprio da donna. Roba pesante va sotto, leggera sopra, lo sanno anche deficienti. Solo Moglie ignora. Marito stringe cordella e chiude primo sacco. Tenta anche secondo sacco, ma cordella si rompe. 
Cazzo! Sola parola decente da trascrivere, resto bestemmie. Camadoi, camadoi, camadoi! Sacco con cordella rotta trasportato come bambino piccolo, dritto appoggiato al petto. Marito stringe troppo, sacco rotto nel mezzo, roba precipita dentro aiuola. Frau di primo piano guarda senza parole. Faccia brutta brutta. Marito sorride, raccoglie roba precipitata, sorride sempre, porta tutto via, fa grosso mucchio dentro resto di sacco e intanto sottovoce insiste: camadoi, camadoi, camadoi!
Operazione finita, solo contenitori latte non scolati prima, scolati adesso su pantaloni di Marito. Anche marmellata appiccicosa. Marito risale scale sempre salmodiando: camadoi, camadoi, camadoi!
-Tutto sto tempo? Moglie non ha visto sacco rotto. Inutile rispondere.
Marito piglia libretto di sudoku e comincia a riempire numeri. Troppo incazzato. Sbaglia due numeri, tre. Butta via libretto di sudoku. Va in bagno e fa bocche brutte nello specchio.
-Esci che devo fare cosa urgente. Moglie furiosa batte pugni su porta.
Cosa urgente sempre quando dentro c'è Marito.
Marito esce. Inutile protestare.
Moglie entra. Dieci minuti e di nuovo esce.
-Dobbiamo andare a fare la spesa. Niente in casa, niente in frigo.
Marito felice. Finalmente capito cosa serve Marito: portare sacchi gialli per plastica, uscire da cesso per cosa veloce di Moglie, fare tassista per Moglie e facchino, sempre per Moglie.
Tassista e facchino sono pagati alla fine. Marito mai.
Spingere carrello, ecco cosa bella da fare per Marito. Moglie non ancora imparato scrivere biglietto con roba da comperare. Andare zig zag, avanti e indietro, ancora zig, ancora zag, di nuovo avanti, di nuovo indietro, e ancora carrello mezzo vuoto. 
-Prendo carne macinata? Chiede Marito.
-Dopo ripasso io, risponde Moglie.
-Ma sta qui in vetrina.
-Ripasso io, ti ho detto.
Inutile insistere. Ripassa lei, ha detto.
Mezzora dopo arrivati alla Cassa. Tutto messo su nastro, cioè Marito mette tutto su nastro, Moglie legge cose scritte piccolissime su piccola busta di minestra precotta. Moglie stringe occhi come cinese ma non ha occhiali e non vede mazza, nemmeno mezza mazza.
Marito paga e mette roba dentro carrello. Moglie cerca sempre di leggere su busta piccola di minestra precotta. Non vede cazzo, ma tenta.
Marito spinge carrello fino a macchina. Comincia a mettere roba dentro grosso contenitore.
-Abbiamo dimenticato la carne macinata, dice Moglie. Tu vai dentro e prendi due dosi.
Marito ritorna dentro supermercato, compra carne macinata, rifà fila lunghissima alla cassa, paga e ritorna con due dosi di carne macinata.
Adesso tutto è a posto. Ripartono. 
A casa macchina rimessa in garage, tirato fuori grosso contenitore di plastica, Marito porta contenitore e un pacco per le scale. Moglie porta pacchetto con cose per bagno.
Marito si sveste e mette abiti per casa, quelli sporchi di latte e di marmellata, ma tanto lei non vede.
Moglie prepara da mangiare, pasto frugale.
-Altrimenti mi diventi troppo grasso, dice Moglie.
C'è minestrina precotta. Nemmeno adesso inforca occhiali, nemmeno legge più. Minestrina scotta, troppo salata. Marito ingozza e zitto.
Si mette davanti a TV per vedere buono programma. Moglie arriva e cambia canale. Sempre cambia canale, mai chiede. Così vedono programma di merda che piace tanto a lei. Marito in compenso comincia a fare pennichella, che appena mangiato fa tanto bene.
Pomeriggio arriva Figlia.
-Macchina rotta, non so cosa abbia. Devo andare in città al centro in un negozio per comperare scarpe. Non ho più niente da indossare.
Moglie subito dice a Marito.
-Hai sentito? Dobbiamo andare in centro a comperare scarpe.
Dobbiamo? Ma solo Figlia non ha niente da mettere addosso. Ma esperienza insegna mai mettersi contro due donne, uomo morto subito. 
Trovare parcheggio in centro città a quell'ora, cosa proibita. Figlia e Moglie che dicono:
-Noi scendiamo, tu trovi posto poi arrivi.
Mezzora solo per trovare merda di posto fuori mano. Adesso mezzora per trovare Moglie e Figlia. Entrare in ogni negozio. Uscire ed entrare nel prossimo. Mezzora poca, forse un'ora.
Sedute in caffè che lo chiamano perché Marito nel caffè non guardava.
-Tutto 'sto tempo per trovare un parcheggio, protesta Moglie. Giusto arrivato in tempo per pagare, che noi non abbiamo spiccioli.
Alle sette di sera si ritorna. Marito ha piedi che fanno male: camminato troppo.
-Non ho voglia di cucinare stasera, dice Figlia. Vengo da voi.
-Nemmeno a me va di cucinare, risponde Moglie.
Guardano Marito.
-Andiamo a mangiare una pizza, papà?
Marito odia pizza, ma risponde OK!
Doveva essere solo pizza, ma poi Figlia vede tortellini al ragù e Moglie cannelloni. Solo Marito mangia pizza, perché oramai ordinato tre pizze e almeno una deve arrivare.
Marito ingozza pizza, che di sicuro gli rimarrà sullo stomaco per due giorni. Figlia chiede anche insalata e Moglie tirami su. Marito paga e basta.
Di nuovo a casa c'è TV da vedere, ma cosa vedere? Moglie arriva e Marito le passa telecomando. Inutile insistere. Vedere programma di musica che Marito detesta, ma Moglie felice e rimane tutto tempo zitta.
Questo è bello, tanto bello.
Poi Moglie spegne TV e dice a Marito:
-Io vado a letto.
Marito velocissimo in bagno per pisciatina rapida. Poi a letto.
Moglie spegne luce e dice:
-Buona notte.
Finalmente Marito si distende e comincia a sognare a occhi aperti nel buio. 
Sogna il deserto del Gobi, del Sahara, i deserti della luna, di Marte, dell'Infinito.

venerdì 7 novembre 2014

I VITELLI DEI ROMANI SONO BELLI

Con queste sei parole prendevamo in giro i somari in terza media, sì perché non si tratta di lingua italiana come sembrerebbe -e come i somari pensavano, facendo allusioni anche alle pecore e alle capre romane, sicuramente bellissime anche quelle- ma di lingua latina. Parlo anche ai miei nipoti, che hanno avuto per grazia divina l'eliminazione del latino dalla scuola d'obbligo, perché di nessuna utilità. Quel ministro dell'Istruzione pubblica sicuramente aveva avuto ai suoi tempi fieri problemi col latino, ma una Camera di deputati ignoranti e sciocchi ha votato una legge iniqua.
I Vitelli dei Romani sono belli -come si evince da due maiuscole, riferentesi a nomi propri- significa "Vai Vitellio al suono della tromba del dio Romano", come ben sanno quasi tutti quelli che seguono il mio blog, almeno tutti quelli  che hanno una cultura classica.
Non è che io oggi voglia fare rievocazioni dei tempi scolastici della mia infanzia e adolescenza, me ne guardo bene dall'annoiarvi con simili chiacchiere, il fatto si è, come avrebbe scritto qualsiasi scrittorello del tardo ottocento e primo novecento, che queste sei vetuste parole mi hanno suggerito una riflessione su certi blogger che vanno forte sul web di questi tempi. Si dipinge la facciata di una casa per modificarne l'aspetto esteriore, ci si trucca il viso per fare scomparire delle rughe, ferme restando le ombre e le incongruenze che rimangono celate sotto. Insomma si ciurla nel manico cercando di manifestare un se stesso ben diverso, e naturalmente assai migliore, vedi caso, del reale. Ci sono blogger che sembra abbiano scambiato il blog per una esaltazione continua e costante della loro intelligenza e del loro primato su tutti gli altri. Cercano l'applauso dei loro lettori, la loro incondizionata adorazione -e ne hanno di pecoroni belanti e plaudenti-, rispondono indispettiti ai pochi che in qualche modo controbattono alle loro pretese di supremazia intellettuale, e arrivano alla cancellazione dei commenti degli "indesiderati", che sono per l'appunto i disturbatori della quiete dei plaudenti.
Una grattatina alla ruggine, una spruzzata di vernice fresca e la carrozzeria sembrerà nuova di zecca e si potrà vendere il brutto "usato" come fosse nuovo. Quello che conta per costoro è dipingersi diversi da come essi sono, complessi, complicati, pieni di misteriose sfaccettature, insomma difficili, belli e tenebrosi. Ricchi di fascino, pensano. Inconsciamente vanno a celare le magagne del proprio carattere e della propria personalità, dilatando enormemente quella piccina e miserrima di cui sono in possesso. Inconsciamente ho detto; temo infatti che coscientemente non siano in grado di rilevare la pochezza che riempie la loro vita, o avrei dovuto dire che svuota le loro giornate. Fortuna loro sono troppo poco intelligenti per rendersene conto. Da ragazzi dicevamo in certi casi: beato te che non capisci niente, così almeno sei felice.

lunedì 3 novembre 2014

EVOCAZIONE



Cruda, essenziale
evocazione di un messaggio
di amore e di odio,
di beatitudine e d'infelicità.
Lo puoi leggere come ti pare.

Vita;

ombra che ristagna;

sconfitta della pietà.



Maximiliansau, 21 aprile 2014

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giovedì 30 ottobre 2014

GUARDATE CHE DIFFERENZA


Questa non è una barzelletta, né una cosa sognata, questa è realtà tedesca che si può confrontare con quella italiana di tutti i giorni, o meglio di tutti i telegiornali della RAI e di Mediaset.
Non passa giorno infatti che tra le notizie di cronaca non appaia quella di una donna assalita in una strada di Napoli, di Palermo, di Roma, di Milano, di Torino di Vattelappesca dove tra i dettagli, abbondantissimi, non venga messo in evidenza il fatto che nessuno -ripeto, nessuno- degli astanti abbia cercato di impedire la violenza personalmente o chiamando le Forze dell'Ordine. Mai. 
È di ieri la notizia che una madre magrebina, dopo una furibonda lite serale col marito -lite udita da tutto lo stabile, come in seguito molteplici testimoni hanno asserito- durante la notte abbia accoltellato il marito, colpendolo tre volte all'addome e alle spalle. Il marito dopo essersi dato alla fuga è riuscito a recarsi al Pronto Soccorso di un ospedale, dove ha riferito di essere stato aggredito per strada da sconosciuti, per salvare la moglie dall'arresto dato che in casa c'erano le tre figlie della coppia. La donna magrebina invece, rimasta sola in casa, forse in preda alla sindrome di Medea e di Didone, ha tentato di scannare le tre figlie che dormivano ignare di tutto, riuscendo solo in parte nel suo folle intento. Le due più grandi sono morte nei loro letti, la più piccola è miracolosamente sopravvissuta e adesso lotta contro la morte. La donna, certa di averle uccise tutte e tre, si è tolta la vita.
Dal letto dell'Ospedale il marito ferito ha cercato di telefonare a casa, ma non ricevendo risposta ha pregato un suo amico di andare a vedere cosa stesse succedendo. È stato l'amico di famiglia a rinvenire le tre donne morte e la bambina ferita.
Nessuno dei coinquilini dello stabile di cinque piani, pur avendo sentito la concitata lite della sera avanti aveva avuto la bella idea di allertare i Carabinieri o la Polizia. Nessuno. Si fecero tutti i fatti propri. Comportamento tipicamente italiota.
Adesso ascoltate quello che è successo a Saarbrücken, Sud ovest della Germania federale, nella nostra Europa, in questo nostro Mondo.
Mio nipote, che abita in un ostello per studenti universitari, stava nel suo miniappartamento giocando con un suo amico una partita di calcio alla play station. Condivano il gioco con urli gutturali in tedesco, italiano, inglese, francese e chissà quale altra lingua, esultando con urla bestiali ad ogni gol segnato. Quando mia nipote, sua sorella, gli ha telefonato ha sentito queste urla ed ha chiesto allarmata cosa stesse succedendo.
"Giochiamo alla play station, le ha risposto il fratello.
Circa un'ora dopo mio nipote telefonava alla sorella e le raccontava:
"Sapessi cosa è successo. Qualcuno allarmato dalle nostre urla ha avvertito la Polizei che stava succedendo qualcosa di grave. Sono arrivate due auto della Polizei, che hanno immediatamente fatto venire un camion dei Pompieri e un'autoambulanza per il pronto intervento. Poi hanno incominciato a bussare a tutte le porte, chiedendo se avessero sentito urla o rumori di violente colluttazioni. Quando sono arrivate da noi, gli abbiamo risposto che stavamo sentendo musica con le cuffie e che non avevamo sentito niente. Pensa che avremmo dovuto pagare l'intervento di tutti e che ci sarebbe costato bello salato quel gioco alla play station".
Lì per lì, quando mia nipote me lo ha riferito mi ci sono fatto due risate. Poi mi è venuto il magone. Ho ripensato a quello che mi avevano detto appena arrivato in Germania, di stare attento a quello che facevo perché quello tedesco era un popolo di poliziotti e di spie. Allora mi sembrò eccessivo che la gente prendesse il numero di targa di un'automobile che parcheggiava due minuti in divieto di sosta. A conti fatti mi viene oggi da pensare che qui la Polizei conta su un popolo di collaboratori, che hanno il massimo rispetto per la loro divisa e per il loro lavoro; da noi invece si cerca di fregare gli sbirri e quando capita li si riempie di botte, come è successo ieri e c'è subito chi chiede le dimissioni del Ministro agli Interni. Questi comportamenti collettivi fanno anche la differenza e spiegano perché loro siano la locomotiva e noi uno degli ultimi vagoni di questo treno europeo.

martedì 28 ottobre 2014

DESIDERIO RINATO



Si sfoglia l'ombra della luna
sulla parete più lontana della casa.

In questo 
squamarsi di vita
rinasce il desiderio:
è una mano che soave accarezza

fresca come acqua 
appena scaturita.


Maximiliansau, 21 aprile 2014


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sabato 25 ottobre 2014

LA PROSSIMA VORTA LA MACHINA LA PORTO DAR FARMACISTA

Ciò na machina ch'è na bomba, nun se ferma mai, nun consuma ojo, poca benza e va in culo ar monno eppoi ciò er disel che qui in cruccolandia costa poco assà. Dico che voi deppiù? Gnente, m'ariconsolo e poi vaje addì che nun la volevo da comprà perché io co l'Opele nun ciavevo mai camminato e me pareva de fa un torto all'arfa a la mercedesse a la biemmevvù. Invece gnente me la so accattata che nemmeno costava troppo. e poi piaceva a mi moje e se sa a le donne bigna dajelo gni tanto er contentino sinnò nun la fanno mai finita de rompe li cojoni. Eppoi si je tiri giù li sedili davanti te ce fai certe dormite da patreterno. Sì però gni tanto bigna da portalla dar meccanico, che magara bisogna da cambiaje le cinghie de soncazzo che, vabbè allora cambiamojele e non se ne parla più. Primma d'annà in ferie le cambiamo così camminamo tranquilli.
Fanno 800 euri, li mortacci sua. Embè so quattranni che nun te costa 'n cazzo sti sordi li poi puro pagà, no? E l'avemo pagati. So ito drento a n'officina granne, indove che c'ereno puro machinoni come mercedesse, giaguarre, biemmevvù nzomma si ce porteno ste machine vor dì che er meccanico è bbono. Eppoi se sa che si vai all'Opele te peleno.
Nzomma ho pagato e me la so portata via. Partimo e stamo da la mi fija vicino a Udine e la machina nun la movo mai, che tanto la mia fia cellà puro lei e er mi genero puro e ce scarozzeno loro, così se arisparmia. Quanno che tornamo la lasso na nottata ar posto machina nder cortile e ce n'annamo a letto che semo stracchi. A la matina se deve da annà a pijà nunsocché e se parte co la machina. Nun fo manco du metri a marcia de dietro e sotto a la machina mia ce sta un lago nero. E questo che cazzo è? La mi moje è nviperita. Se perde er disele, sta tutto pe tera. Un par de cojoni er disele, questo è ojo der motore. E che vor dì? Vor dì che la dovemo da ripostà ndo l'avemo fatta fa e de gran cariera. Er capoccia me guarda e me fa "succede co le machine, come co le donne, va sempre bene e po na vorta sgareno". Dico guarda come piscia, se lo perde tutto. Me fa adesso nun se po fa gnente perché famo ferie puro noi. Mo te do na machina mia che nun te costa gnente, solo la benza, questa la lassamo qua e quanno tornamo la famo.
Me paresse n'offerta bona e l'aringrazzio puro. Me fo 15 giorni co na Nissan Micra che nun è gnente male, mica come la mia però nun me costa n cazzo.
Quanno torneno me telefona e me fa "ce so tutti li gommini da cambià" e tu cambieli che me lo dichi affà? Ma io nun te la posso fa subbito che ciò er personale ridotto. Quanno? la prossima settimana, tu intanto la machina cellai.
Me la ridà doppo na settimana e m'ariscuce quasi cinquecento euri, che mo me rode er culo de brutto, ma tutto sommato m'è ita bene. Parto da casa mia e vado a casa der mi fijo che sta nemmeno a quindici chilometri e aritorno a casa, nzomma na trentina de chilometri scarsi. A la matina doppo ce sta n'antra vorta na macchia d'ojo sotto ar motore. M'incazzo come un bovo quanno che s'incazza e ce aricorro. Dice nun po esse. Guarda sotto e dimme che cazzo sta a pisciasse l'anima de li mortacci sua? Dice è ojo. E te ce voleva er dottore? Adesso me la fai de corsa che me serve. De corsa nun se po, ciò l'officina piena, portemela giovedì. Così io vado a fette fino a giovedì poi je la porto. Mo guardamo che è successo. Amore mio, guarda che stavorta nun te pago. Bigna da vede quello che è successo. In trenta chilometri nun po succede un cazzo, ve sete scordati quarche gommino. Dice che nun po esse e intanto s'è fatto venerdi e io vado sempre a fette e le bestemmie se coreno de dietro. Ar lunedì m'aritelefona e me fa bigna che arimontamo tutto. E tu arimonta, ma quanto ce metti? Ciò n'omo solo l'antri so ammalati. Che è arivata l'ebbola nell'officina tua? A me la machina me serve. Te la fo in settimana.
Sto ancora a spettà. Jo fatto telefonà dar fidanzato de mi nipote pe avecce un testimone.
Ja arisposto che se tratta de un anello de gomma de l'arbero motore. Me cojoni? Nun era la primma cosa che dovevio da guardà? Eppoi je fa nun se po fa perché er meccanico che la faceva s'è ammalato e l'antri nun ce vonno mette mano.
In sessantanni de guida nun me l'ero mai sentita dì na stronzata come a questa.
Guardate che nun è successo a Roma o a Napoli, nzomma nun è successo nell'Italietta nostra. Succede qui in Germania. Ma si nun lo sapete nun c'é nisuno più stronzo d'un tedesco quanno è stronzo. Va a finì pe avvocati perché io a questo lo denuncio. Nun se po tené na machina ferma drento a n'officina e io me devo da pija er tassì e pagammelo perché tu nun sei bono de fatte rispettà dar personale tuo, che allora me la ridavi e me dicevi portela dall'Opele.
Na cosa bona è che io so assicurato puro pe questioni legali e sta vorta saranno stati sordi benedetti, perché qui l'avvocati so cari assà.
Ma la prossima vorta la machina la porto piuttosto dar farmacista.

mercoledì 22 ottobre 2014

ODE PER UN QUADRO MAI COMINCIATO A DIPINGERE



Una mano di pallida biacca
spalmata. Scompare il brutto paesaggio
dipinto da un artista mediocre.
Alberi come pipistrelli;
il lago un pantano artificiale;
nuvole appiccicate
in alto come un vecchio collage maligno.

Montagne di giornate già scritte, quintali
di sospiri su decametri di speranze tradite.

Adesso una mano copiosa
di carbonato basico di piombo
brucia le narici per ore, per giorni.

Lasciato così, respirare a fondo
la putrefazione di dieci mattinate,
l'oscena oscurità di dieci nottate,
esalare l'odore pestifero
della biacca, tenuto dentro una stanza
mentre finestre serrate impediscono
a nuova aria di depurare
e cancellare e valicare le ombre
immobili, che si accartocciano sopra ogni oggetto,
nascondendone spigoli e superfici piatte
e curvature che si infossano
le une nelle altre.

Intrisa di buio
la tela non trasmette sensazioni
tattili, finché cinto d'acqua
il canneto della mia curiosità mette
in vibrazione le foglie più verdi e aguzze che possiede.

Un'ondata di luce che trabocca dalla
finestra spalancata denuda la pallida tela,
ne scuote al suolo tracce dei segni impolverati
di maldestri colpi di pennello.

Nuda di forme e di colore è tutto.
Si scompone e ricompone,
non accetta di essere di nuovo violentata,

e non c'è ombra di plagio
nella perfezione del nulla.


*****

Maximiliansau, mercoledì 22 ottobre 2014