martedì 11 maggio 2010

UNA GRAN VOGLIA DI

-Poli è libero!
L'uomo calvo e abbronzatissimo quasi lo gridò spalancando la porta della stanza.
I tre uomini seduti intorno al tavolo si voltarono a guardarlo senza far parola per alcuni attimi stringendo in mano le loro carte da gioco.
-Gli ci vorrà tempo per sapere dove siamo, disse quello più anziano dei tre.
-Arrivato in albergo ha chiesto qual'era il primo treno per Rho, rispose l'uomo calvo e abbronzatissimo.
-Entra e chiudi quella fottuta porta, Brescia, intimò l'anziano scortesemente.
Brescia andò a sedersi al tavolo.
-Chi c'è che lo controlla laggiù? Chiese l'anziano.
-Una persona capace e fidata.
-Ma non doveva uscire fra cinque anni? Chiese il più giovane, che chiamavano Puglia.
-Va a finire sempre così: li fanno uscire prima per buona condotta e cazzi vari, disse il terzo uomo, uno spilungone che chiamavano Aceto.
-Nessuno da là dentro ci aveva avvisato, però, disse quello anziano. Questo mi preoccupa, niente altro.
-Sono usciti altri quattro insieme a lui, Maggiore. Deve essere arrivato l'ordine dal ministero il giorno prima, replicò Brescia; ma non ne era tanto sicuro e il Maggiore se ne accorse subito dal tono fievole della sua voce.
-Ho paura che qui qualcuno non sappia più lavorare bene, disse, e Brescia sentì che gli si gelavano le palle.
-Non capisco il perché di tanta agitazione, disse Aceto; alla Tigre saranno caduti i denti dopo tanti anni.
-Alla Tigre non cadono mai i denti, replicò il Maggiore; ed è sempre affamata.
Si erano rimessi a giocare il loro tressette col morto.
Brescia si alzò di colpo: sedeva proprio dal lato del morto.


Appena richiusa la porta della sua camera d'albergo, Poli sedette sul letto e tirò fuori i suoi indumenti dallo zaino. Non aveva tempo da perdere. Sapeva che l'Organizzazione in qualche modo aveva già allertato i suoi ex amici.
Sfilò da una tasca il suo coltello e iniziò a tagliare con cura i fili della cucitura del bavero dell'unica giacca che possedeva. Tagliava i fili e allargava i due lembi di stoffa con la punta delle dita. Allargati tre o quattro centimetri intravide uno degli angoli del foglietto di carta che vi aveva nascosto. Tirò ancora i due lembi per un paio di centimetri e fu in grado di estrarlo. Ci aveva scritto numeri telefonici, mail, indirizzi, le coordinate del suo futuro immediato.
Raccolse i fili caduti in terra e se li mise in una tasca dei pantaloni. Quindici anni di galera gli avevano insegnato la meticolosità: mai affidarsi al caso, mai lasciare tracce.
Finì di togliere la sua roba dallo zaino e la sistemò ordinatamente nell'armadio. Chi entrava doveva avere l'impressione che lì qualcuno volesse alloggiare per un po' di tempo.
Mise il suo prezioso foglietto di carta nel portamonete e uscì dalla stanza, chiudendosi a chiave la porta dietro le spalle.
Camminò lungo le strade di quella cittadina per un paio d'ore. Non era molto cambiata in tutti quegli anni; c'erano alcune costruzioni nuove al posto di altre che ricordava lui. La casa che aveva abitato insieme a Eleonora non esisteva più: al suo posto e al posto delle case adiacenti un irriverente palazzone color arancio con una incredibile serie di balconi di cemento, allineati su tutta la facciata come le aperture di una colombaia.
Camminava da più di un'ora e non aveva ancora visto una cabina telefonica. Era evidente che l'uso dei telefonini aveva mandato in fallimento qualche attività.
Finalmente ne vide una, seminascosta in un angolo di una piazza alberata. Vi si diresse velocemente. Digitò uno dei suoi numeri. Squillò a lungo prima che qualcuno rispondesse.
-Sono un amico di Nik Bontà, disse Poli.
-Ero stato avvisato e aspettavo la telefonata. Che posso fare per te?
-Mi occorrono un paio di attrezzi.
-Cioè?
-Una Beretta piatta 7,65 con due caricatori extra.
-Questo è il primo, disse la voce. Poi?
-La Beretta non deve essere mai stata usata, insisté Poli, marcando le parole.
-Vuoi mancarmi di rispetto? Io so quello che faccio. Che ti serve ancora?
-Due bombe a mano, preferibilmente due ananas americane.
-Ti consiglio le russe: sono più leggere, si maneggiano meglio, con meno rischi e fanno lo stesso effetto.
-Vedi tu. Quanto mi verrà a costare 'sta roba?
-Niente: paga tutto don Nik Bontà. Devi proprio essere un suo grande amico.
-Puoi dirlo.
-Ritelefona tra due ore e ti dico dove e quando dovrai venire a ritirare la roba.


Brescia tornò con le pizze. Reggeva la pila di cartoni con la punta delle dita e aveva una smorfia di sofferenza sulla bocca, perché le pizze erano state appena sfornate e gli bruciavano le mani. Il Maggiore intanto continuava a parlare nel cell, tenendosi una mano sulla bocca perché non si sentisse quel che diceva.
Brescia e gli altri attesero che ebbe finito; i quattro cartoni distribuiti ai lati del tavolo e aperti perché il Maggiore scegliesse.
Sedette davanti alla quattro formaggi, come tutti avevano previsto.
-Ha già iniziato a cercare i suoi contatti, disse tagliando a metà la pizza con forchetta e coltello.
-Allora possiamo conoscere tutte le sue mosse, disse Aceto.
-E prepararci ad accoglierlo come si deve, aggiunse Puglia.
Il Maggiore finì di masticare rumorosamente il grosso pezzo di pizza che si era cacciato in bocca. Inghiottì facendo il solito rumore come lo scolo di un lavandino.
-Noi non accoglieremo nessuno, disse. Ci penseranno altri ad organizzare il ricevimento. Noi ce ne andiamo di qui, punto e basta.
-E perché? Chiese Puglia.
-Perché loro vogliono così.
-Quando dobbiamo andarcene? Chiese Aceto.
-Appena avremo finito di mangiare le pizze.
Puglia e Aceto si scambiarono un'occhiata in silenzio. Brescia si concentrò sul resto della sua prosciutto e funghi. Pensava alla fica imperiale che lo aspettava a cena a casa sua. Ci aveva messo più di tre mesi per conquistarla e adesso questa bella notizia.


Poli si era messo a camminare per le strade intorno a quella piazza piena di alberi, mentre aspettava l'ora per fare la sua telefonata. Camminando guardava i negozi, le case, la gente, ma era come se i suoi occhi si poggiassero sopra le cose senza vederle; il suo cervello non registrava nulla perché dentro gli ci stava ballando una fissa, sempre la stessa da quindici anni: per quale dannata ragione era entrato nel vicolo a raccogliere la pistola che Brescia ci aveva gettato?
Quella pistola fumante nelle sue tasche lo aveva fottuto.
Brescia indossava i guanti, ma lui l'aveva visto girarsi e rigirarsi quella pistola tra le mani tutto il giorno e non era sicuro che l'avesse pulita per bene. Se beccavano Brescia erano tutti fregati. Per questo si era fermato nel vicolo.
Ci aveva messo non più di due minuti, ma quando era tornato fuori Aceto aveva dato gas senza aspettarlo perché stavano arrivando i carabinieri a sirene spiegate.


Poli camminava in circolo per le strade adiacenti alla piazza con la cabina della Telecom. Guardava tutto, non vedeva niente.


Tanto lavoro minuzioso spazzato via da un incapace! Lo studio del piano per realizzare il colpo; i sopralluoghi e i controlli dei tempi e di tutti i dettagli; le perlustrazioni giornaliere del percorso di fuga, effettuate a ore diverse del giorno per scegliere quella migliore. Tutto andato a puttane per colpa di uno stronzo cui era tremato il dito sul grilletto della pistola.
Che bisogno c'era? Avevano i diamanti, dovevano solo legare e imbavagliare l'orefice e sua moglie e poi uscirsene tranquilli e indisturbati. E invece quella testa di cazzo di Brescia si era cacato addosso e dopo aveva gettato la pistola nel vicolo come un fazzoletto sporco.
E Aceto allora? Al primo suono di sirena era scappato via a tutto gas, piantandolo in mezzo alla strada, quando lui ormai era a due passi dalla macchina. Non si era messo a correre come qualsiasi stupido avrebbe fatto, ma la moglie dell'orefice, uscita fuori urlando, lo aveva riconosciuto e rincorso.
I carruba lo avevano inchiodato col muso per terra mentre gli mettevano le manette ai polsi. La pistola gliel'avevano trovata subito in una tasca dei pantaloni, e al processo aveva pesato come un macigno; al fatto che ne avesse addosso anche un'altra che non aveva sparato non avevano dato nessun valore.
"La mia è quella che non ha sparato, l'altra l'ho raccolta da terra".
"Allora dicci il nome di chi ha sparato, e dicci chi erano i tuoi complici".
Ma Poli queste cose non le fa, così si era beccato un'accusa di omicidio volontario e una condanna a venti anni.


Brescia caricò gli ultimi due borsoni sul furgone e tornò in casa per vedere se aveva dimenticato qualcosa nello studio del Maggiore. Aprì i cassetti della scrivania uno ad uno, tutti vuoti tranne l'ultimo. Sul fondo giaceva una grande foto a colori incorniciata. Un tempo l'aveva vista al centro della scrivania. La tirò fuori per riguardarla: Eleonora sorridente in bikini seduta sulle possenti cosce del Maggiore.
Era entrato e gli stava dietro le spalle.
-Rimetti quella foto dove stava, gli intimò il Maggiore.
Brescia sussultò e ricacciò la foto nel cassetto, chiudendolo con un calcio.
Il Maggiore sostava ancora al centro della stanza: si guardava intorno.
-Ho cambiato idea, disse. Metti quella foto al centro del tavolo che sta all'ingresso, rivolta verso la porta, così appena entra in questa casa gli si avvelenerà il sangue.
-Lasciamoci allora anche un biglietto col suo nuovo indirizzo e il nome dell'ultimo che se la sbatte.
-Che se lo cerchi da solo l'indirizzo; e tu tieni a freno la lingua, perché stai parlando di una signora, e uscì di casa sghignazzando.
Brescia si chiuse la porta dietro le spalle, ma prima diede un'ultima occhiata: la foto brillava sotto il vetro colpita da un faretto del corridoio rimasto acceso.
"È come al cimitero, pensò; nei loculi, per chi arriva di notte".


Poli controllò l'orologio: ancora una ventina di minuti per la sua telefonata. Era un tipo preciso; bisognava essere così nell'Organizzazione: precisi, oculati e fedeli. Lui lo era sempre stato.
In quella storia aveva fatto la sua parte fino in fondo, aveva taciuto e si era preso la galera senza battere ciglio. Ma gli altri no, gli altri avevano sgarrato di brutto.
Due erano le cose che non riusciva a mandare giù: punto primo, Eleonora. Le regole da rispettare sono chiare: le donne dei ragazzi in galera non si toccano, ma il Maggiore si era appropriato di Eleonora dopo nemmeno sei mesi e nessuno gli aveva detto niente.
Punto secondo, il tentato omicidio in carcere. Ci sarebbero riusciti se lui non fosse stato sotto la protezione degli uomini di Nik Bontà. Quello che lo doveva ammazzare teneva tre ergastoli ed era stato pagato per pigliarsi il quarto. Prima di crepare fece nomi e cognomi, che Poli mise in testa alla lista di quelli che sarebbe andato a ringraziare appena libero.
Perché lo volevano morto lo avrebbe capito anche un bambino: lui sapeva troppe cose sull'Organizzazione, tutto per meglio dire, e conosceva nomi e indirizzi. A qualcuno erano diventate molli le palle sapendolo in mano agli sbirri. Ma portargli via la donna e farla poi diventare una troia era stato uno sfregio, una gran porcata. Gli avevano perfino lasciato pervenire l'elenco dei nomi di quelli che se l'erano fatta, con indirizzo e numero del cell, aggiornato ogni anno coi nuovi arrivati: tutti i cognomi principiavano con la lettera V, come il suo. Erano tutti passati di lì i Viganò, i Vittori, i Vigata, i Vigna, i Valetti, i Vinciguerra, i Vaffanculo. Se non era sfregio quello!
Dell'ultimo addirittura nome e cognome. Era roba di un anno prima, radio carcere ne aveva parlato per mesi. Erano stati bravi a trovare al Nord uno che si chiamava esattamente come lui, Francesco Ventura: la massa dei Ventura stava da Roma in giù, come aveva scoperto suo padre tanti anni prima facendo ricerche sul suo casato.
"Che idea strampalata mi è venuta adesso", si disse. "Se a quelli occorre qualcuno lo prendono da dove si trova e lo sbattono in culo al mondo".
Doveva essere andata proprio così col suo omonimo.


Era di nuovo vicino alla cabina della Telecom. Guardò l'ora: poteva chiamare.
-Don Nik Bontà ti vuole veramente bene e si preoccupa per te, disse la voce dall'altra parte. Ha pensato che uno che arriva col treno lo può fermare un bambino. Nel garage sotterraneo della stazione centrale troverai un'Alfa GT rossa, targata DY 595 AY. Le chiavi e i documenti dell'Alfa sono sotto il tappetino insieme alla tessera per uscire dal garage. La tua roba sta in un pacchetto dentro il portabagagli. Nello sportello del cruscotto c'è un telefono cellulare. Tienilo sempre acceso e a portata di mano. Inserisci nel navigatore questo indirizzo: 20017 Rho, Viale Garibaldi numero 17, e buon viaggio.


L'Alfa aveva percorso solamente 1.928 chilometri, insomma nuova di zecca. Eh sì! Si poteva ben dire che don Nik Bontà gli volesse bene. Qualcuno se n'era già meravigliato, ma nessuno sapeva che Nik Bontà era il fratello più piccolo di sua madre.
Dopo tre ore gli venne fame. Aveva passato da poco l'uscita nord per Frosinone. Vide l'insegna di una stazione di rifornimento e rallentò; avrebbe fatto lì benzina, dopo aver mangiato qualcosa. Mentre finiva di azzannare un panino al formaggio squillò la suoneria del cellulare.
La solita voce.
-Cambio di programma: non stanno più a Rho, ma in un casolare alla periferia di Inveruno, direzione Cástano Primo. C'è una salita con una chiesetta e quattro case lungo una strada; dopo mezzo chilometro in discesa ti trovi il casolare davanti, proprio dove sta la tabella del chilometro 27. Hanno intenzione di prendere alla Malpensa l'aereo per Istanbul; domani mattina alle nove devono trovarsi al check-in. Da dove stanno gli bastano venti minuti. Imposta il nuovo indirizzo sul navigatore. Devi stare lì non più tardi delle sette e mezza. Con il tuo cell puoi prendere Google maps: inserisci l'indirizzo che ti ho dato e guardati bene il posto. Entra nel cortile dietro la casa e getta le bombe dentro le due finestre del piano terra. Poi sparisci senza guardarti dietro. Se restano dei feriti ci penseremo noi quando saranno all'ospedale.


"Volano a Istanbul, pensa tu!" Si disse Poli quando fu di nuovo in autostrada pistando a tavoletta. Nessuna meraviglia: il Maggiore si chiamava Metin Onéci ed era di Istanbul.


Alle quattro di notte Aceto non ne poté più: saltò giù dal letto e andò nel cortile in pigiama a provare se il furgone partiva. Gli erano venuti dubbi. Fece tre partenze e decise che tutto era in ordine.
Brescia si alzò per pisciare ogni mezzora; in pratica passò la notte a guardare il cannello della sua urina che centrava la tazza del cesso.
Puglia passeggiò tutto il tempo nel corridoio a piedi scalzi. Ogni volta che arrivava davanti alla porta delle cucina, faceva una breve sosta, entrava, apriva il frigorifero e mangiucchiava quel che gli capitava sotto le dita. All'alba era talmente pieno che dovette scappare nel campo davanti alla casa sotto un albero di albicocche per liberare l'intestino. Il cesso era occupato da Brescia.
Il Maggiore fumò un pacchetto intero di Marlboro. Alle quattro attaccò il secondo.
Si potrebbe dire che in quel casolare tutti in quella notte erano molto nervosi.


Alle sette meno qualche minuto Poli pagò il pedaggio al casello dell'autostrada e si immise nella provinciale in direzione di Magenta. Aveva diminuito la velocità e spento le luci. Secondo il suo navigatore stava a 22 chilometri dalla sua meta, una quindicina di minuti al massimo a quella velocità.
Preciso, sicuro e in perfetto orario come sempre! Quindici anni di sosta forzata non lo avevano arrugginito. La Tigre era di nuovo in caccia e le sue prede lo sapevano.
Attraversò un piccolo paese, poi un altro, poi un gruppo di casolari isolati; dopo una breve salita passò davanti a una chiesa. Non c'era quasi anima viva. Fermò l'Alfa sul ciglio della strada: scese, aprì il cofano del portabagagli, prese il pacchetto e rientrò nell'abitacolo. Disfece il pacchetto. Si mise la Beretta in una tasca dei pantaloni e le due bombe a mano nelle due tasche della giacca, una per parte.
Rimise in moto e partì, molto lentamente. In fondo alla strada c'era un gruppo di case. Gli sembrò di riconoscere quelle che aveva visto sul display del telefonino quando si era studiato la zona su Google maps. Il casolare isolato che cercava era a destra, circa mezzo chilometro dopo quella casa là in fondo.
I suoi nervi erano tesi al massimo e procedeva guardando solamente sulla destra, pronto a cogliere qualsiasi movimento sospetto.


La cosa che sbucò fuori dalla sinistra riuscì a percepirla solo all'ultimo istante.
Toccò il freno nello stesso momento in cui la cosa urtava l'Alfa e ne veniva travolta. La ruota anteriore sinistra sobbalzò più volte su qualcosa che stridette acutamente. Un attimo dopo Poli vide emergere davanti al muso dell'Alfa ormai ferma un ragazzino, che camminava gobbo a saltelloni sul piede sinistro, tenendosi il ginocchio destro con entrambe le mani.
Scese dall'auto. Il ragazzino, arrivato al bordo della strada, sedette per terra di fronte a lui. Poli vide che aveva la faccia stralunata come quella che doveva avere lui in quel momento.
-Ma come cavolo guidi! Gli strillò il ragazzino.
-Mi dispiace...guardavo...
-Dall'altra parte. Ti ho visto.
Poli si sentiva un verme.
-Ti sei fatto male?
-Un po' qui. Ma guarda quella!
Poli si girò e vide per tre quarti ancora sotto il muso dell'Alfa una mountain bike: la forcella anteriore era spezzata e la ruota contorta.
-È nuova di zecca! Gridò il ragazzo. Me l'ha regalata mio padre a Pasqua. Adesso che gli racconto?
Poli guardò verso il casolare isolato davanti a sé. Gli era sembrato di vedere qualcuno muoversi nel cortile davanti alla casa. Le luci al piano terra erano tutte accese. Mise una mano in tasca sentendo subito sotto le dita la superficie ruvida di una bomba.
La strinse con forza.
"Adesso via questo catorcio da qua sotto e andiamo a concludere il lavoro", si disse.
Fece due passi verso l'auto, si chinò e tirò fuori la mountain bike del ragazzino, ma invece di scaraventarla nel fossato al lato della strada rimase lì impalato con la bici fra le mani.
"Che cazzo mi sta pigliando?" Si chiese furioso. "Via di qui, via da questo bamboccio!"
Qualcuno era uscito nel cortile. Dalla mole riconobbe Aceto. Caricava bagagli sul furgone. Stavano partendo, doveva far presto, ma non riusciva a schiodarsi di lì.
-Pensi che si possa riparare? Chiese il bambino.
-All'inferno! Esclamò Poli.
-Ma me l'hai rotta tu, piagnucolò il bambino. È colpa tua.
-Sta zitto, maledizione!
Erano tutti fuori nel cortile: il Maggiore, Puglia e quel coglione di Brescia. Aceto aveva avviato il motore. Se Poli si fosse messo a correre ce l'avrebbe ancora fatta, ma non riusciva a muoversi.
Il bambino cominciò a piangere forte.
-Sta zitto, per favore.
Il furgone si era mosso. Uscì dal cortile, imboccò una laterale e prese velocità. In breve divenne un puntino colorato.


Poli sedette sul muso dell'Alfa. Un intruglio di sensazioni dentro di lui; con le mani adesso non stringeva bombe a mano russe ma una mountain bike contorta.
Il bambino si era chetato; guardava Poli e la sua bici, tirando su col naso.
-Forse si può riparare, gli disse Poli. Vedremo.
-Ma adesso come vado fino a scuola?
-Ti ci porto io.
-E come torno a casa oggi pomeriggio?
-Stammi a sentire, ragazzino. Adesso ti porto a scuola, poi vado a cercare un meccanico per la bici. Se si può riparare OK, se no te ne compro una uguale. Soddisfatto?
-E dove me la lasci?
-Te la porto a scuola oggi pomeriggio. Sarò lì quando esci.
-Parola d'onore?
A Poli venne da ridere. Nel suo ambiente nessuno te la chiedeva, era normale che quello che dicevi doveva essere un impegno per la vita o per la morte. Ma lui aveva mancato quella mattina alla parola che si era dato per quindici anni: il furgone di Aceto e compagni non c'era più.
-Hai la mia parola d'onore, rispose al ragazzino. Adesso alzati ché si è fatto tardi. Vedi se puoi camminare.
-Ce la faccio.
Poli lo aiutò a salire sulla macchina, poi aprì il portabagagli e vi sistemó alla meglio la mountain bike. Risalì in macchina.
-Adesso dimmi dov'è la tua scuola.
-Vai sempre dritto. È a tre chilometri da qui.
Poli mise in moto l'Alfa e partì senza scossoni; non diede nemmeno un'occhiata al casolare vuoto quando ci passò davanti.











2 commenti:

  1. Quando si dice un finale spiazzante... La storia si legge d'un fiato, ed è assai verosimile (tranne forse il fatto di parlare apertamente di armi al telefono, e l'infierire così tanto con "sfregi cornuti" nei confronti di uno così pericoloso e che in fondo ha saputo tenere la bocca chiusa)
    Come scrittura ho apprezzato assai di più il racconto precedente, però ti ringrazio pure per questo.

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  2. Giusto dal tuo punto di vista l'appunto agli "sfregi cornuti"; ma tu non vivi qui. Io ho preso spunto -molto alla larga- da un fatto vero successo a Stoccarda, tra serbi e turchi. La Mala turca fa questi sgarbi, e Metin Onéci è turco.
    Considero le tue impressioni molto interessanti ed anche importanti.
    Grazie a te.

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