lunedì 24 maggio 2010

QUARANTA PEZZI DA CINQUECENTO

Un anno fa, proprio di questi tempi, nella soffitta che ho usato per tanti anni come atelier ho distrutto l'ultimo mio quadro, un acrilico 150 x 150, che avevo dipinto qualche giorno prima in appena due ore.
Dice che si chiama arte gestuale quella che si ottiene con ampie pennellate ad apertura di braccia.
Un cielo blu, o qualcosa di blu su in alto, una fascia rossa terra di Siena bruciata a metà della tela, ancora fasce di azzurro e rosa a chiudere, giù in basso.
Si chiama arte gestuale. Non bisogna pensare, solo muovere il braccio lungo la tela. E basta.
L'ho fatto a pezzi. Perché mi faceva schifo.
Sentivo che quella era la fine di un amore tempestoso, mai completo, mai compreso tra me e la pittura, tra me e l'arte. Un amore durato quarantacinque anni.

Al contrario di tutte le relazioni umane che vanno a male, la fine di questa non mi ha dato amarezza, ma un senso di pace, un "grazie a Dio mi sono liberato di questo peso". Era diventata da anni una sofferenza, infatti. Non mi rendeva più felice. Dipingevo velocissimo, non vedevo l'ora di finirlo il quadro. Come quando non ami più una donna, o meglio quando non la desideri più ma pensi di amarla ancora in qualche modo e ci vai lo stesso a letto insieme, ma cerchi di finirla in fretta in modo che lei poi si addormenti, soprattutto perché non ti capiti qualche abbattimento di tensione, che faccia capire alla donna come stanno le cose. Non è bello che lei lo capisca, e poi non ti lascerebbe più in pace.
Con la pittura è stato diverso: lei non si è lamentata, non ha pianto; le tele inconsumate stanno tutte lì nella soffitta, appoggiate bianche e nude a una parete per quanto è lunga, perché sono tante e grandi. Difficile da svenderle così montate su telai, infatti quegli enormi formati non possono interessare nessuno; dunque occorrerà smontarle e arrotolarle insieme per tentare di sbolognarle sotto costo a qualche pittorello dilettante.
Bene! Chiuso, finito, morto e sepolto. Ma perché tutto a un tratto? Perché da anni mi ripetevo, pasticciavo e ci giravo intorno. Non c'è niente di più triste di un artista alla frutta, peggio al digestivo. Ricordo gli ultimi trenta o quaranta quadri di Picasso, che disperazione! La caricatura di sé stesso. Tranne l'ultimo, intitolato postumo "femme nue couchée et tête", un vecchio dipinto del 25 maggio 1972, che Picasso aveva per circa la metà spalmato di bianco il 7 aprile 1973 per finirlo l'indomani, ma al mattino morì.
Solo perché incompleto è così bello e tragico.
I miei ultimi trenta o quaranta quadri mi fanno schifo. Li tengo arrotolati in soffitta; li ho staccati dai telai per non guardarli.
Ecco perché ho smesso e mi sono subito sentito bene, migliorato, liberato.

Benissimo, ho pensato; adesso smonto tutto e affitto la soffitta a ore a questi gruppi rock di giovani scassacazzi, che vogliono fare musica e hanno bisogno di provare le cose loro in un ambiente ampio e insonorizzato, e la mia soffitta è ampia e insonorizzata.
Mi è sembrata una buona idea, così mi sono messo subito al lavoro per ripulire tutto il sudiciume di anni di schizzi di colore, di colle e di soventi; e poi creare lo spazio necessario agli scassacazzi.
Mentre mi trovavo inzaccherato e lercio, fetente di sudore, sentii salire sull'ultima rampa di scale, che porta solamente alla mia soffitta, qualcuno che picchiettava sui gradini con due piedini leggeri sospesi su altissimi tacchi a spillo (si sente, si sente, e come si sente).
Cristo! Ho pensato; arriva una bellissima e io puzzo.
Ne ho atteso l'ingresso spavaldo immaginandomela come non poteva che essere: altissima, biondissima, bellissima, coscia infinita, bocca carnosa e lasciva.
Cinque o sei scalini prima della porta me ne è arrivato il profumo: Chanel numero 5, vuoi mettere!
No ha bussato, ha aperto e regalmente è entrata: una stupenda femmina di Labrador dal manto bianco a pelo raso, muso lungo e intelligente, con al guinzaglio di vernice rossa una donna, che certamente era bellissima, ma piccola, bruna e cinese.
Andò in ogni angolo, seguendo il suo cane. Guardò compiaciuta le grandi tele già pronte appoggiate alla parete di fondo.
-Mi occorrono alcuni quadri -disse, tirando a sé il Labrador.
Chi lo avrebbe mai detto che avrei venduto un quadro proprio adesso, pensai.
-Ho parecchia roba qui; se mi dice le sue preferenze, che so, figure, nature morte, paesaggi -le dissi avvicinandomi alla grande scaffalatura di legno che occupava tutta una parete, dove tenevo i quadri finiti ed asciugati.
-No, no -mi interruppe- niente roba vecchia. Io voglio quattro quadri nuovi, che lei dipingerà per me.
E poiché ero rimasto a guardarla a bocca aperta, continuò spiegandomi le sue intenzioni.
-Lei mi fa quattro ritratti per la mia nuova casa di campagna. D'accordo?
Provai ad evitarmi quel tormento.
-Non è possibile.
-Cosa non è possibile? Glieli pagherò bene i suoi quadri.
-Non è una questione di soldi; io non dipingo più, signora.
-È questo che non è possibile: un pittore non smette mai di dipingere; solo quando è morto smette.
Come cavolo facevo a spiegarle che mi sentivo arrivare la merda fino alle orecchie quando prendevo un pennello in mano?
-Ho dei problemi...personali, e poi non sono un ritrattista...non ho tempo per le pose...né la pazienza. Se li immagina io e lei chiusi qui dentro a posare per settimane, per trovare le giuste espressioni del viso...no, no signora, rifiuto. Negativo.
-Io non vengo qui a posare, come dice lei, nemmeno per un minuto.
Aprì la sua borsa e ne estrasse un pacco di foto formato 18 x 13.
-Due quadri li voglio col mio cane, come queste due foto; gli altri due da sola, a figura intera, in piedi naturalmente, e qui può trovare tutte le espressioni del mio viso, quando rido, quando sono pensierosa, quando sono ironica, quando sono sorniona, tutte. Scelga lei.
-Naturalismo assoluto, copie fotografiche, insomma. Un delirio! -esclamai.
-Non esattamente copie fotografiche -rispose.
Tirò fuori dalla borsa un libretto illustrato e me lo porse. Lessi il titolo: "Gustav Klimt, die Wiener Secession und der Jugendstil". Oh Dio! Pensai. Che vuole questa da me? Odio il Liberty.
Come se mi avesse letto nel pensiero la cinese aggiunse:
-Sono molto amica di Olga Borg e frequento il suo bel locale il "Lord Pub". Ho visto lì appesi i due quadri che lei ha dipinto su commissione per Olga. Bellissimi. I miei quattro li voglio proprio così.
Ricordavo benissimo quei due quadri e la fatica che mi erano costati. Più che altro erano un assemblaggio di elementi presi da quadri di Klimt, spudoratamente copiati. Un orrore; ma Olga me li aveva pagati tremila marchi l'uno e io in quel momento avevo uno schifoso bisogno di soldi.
-Si è trattato di due unicum -obiettai- nel senso che non ne avevo mai fatti e mai ne rifarò.
Fece un sorrisetto beffardo.
-Le darò cinquemila euro per quadro. Fanno ventimila euro. Non si trovano per terra tutti 'sti soldi.
La guardavo in silenzio. Non sapevo che dire, ma mi sentivo tanto triste.
-Bene, ci siamo capiti. Grandi come quelle tele appoggiate al muro, mi raccomando. Quando li avrà finiti me li porterà a questo indirizzo -concluse lasciandomi un biglietto da visita.
Uscì come era entrata, preceduta dal suo meraviglioso cane. Quando il ticchettio dei suoi tacchi a spillo si fu perduto sedetti sopra una sedia per riprendere fiato. Per lo meno non dovevo smontare tutte quelle tele.

La prima cosa razionale che feci fu telefonare a Olga. Mi attaccò un bottone di mezzora, ma alla fine sapevo quel che mi interessava.
Liù, nome vero o d'arte poco importa, non era cinese, ma nata a Kyoto, per cui giapponese; era sposata con un magnate dell'edilizia nel mondo che conta, ricco da crepare, trentacinque anni più vecchio di lei, che la ricopriva di regali. Ogni desiderio di Liù era un ordine, per cui possedeva sette cani di razza, più di duecento quadri d'autore. Le ville, gli appartamenti e i gioielli non li contava ormai più.
-Ventimila euro? Li hai già in tasca. Piantala di lamentarti e dipingile 'sti quadri perché ti stai scavando un pozzo di petrolio in casa. Tu non hai idea di quanti soldi può buttare in un giorno. Datti da fare, bello!
Ottimo consiglio: sui soldi non si sputa, anche a costo di lavorare con la porta del cesso aperta per andare a vomitare ogni volta che mi sarebbe venuto su. Ma mi sentivo una gran puttana.

La seconda cosa razionale fu di recarmi al Teatro di Stato dove avevo lavorato per dieci anni come pittore di scena, e dove contavo ancora tanti amici, a cominciare dal capo deposito. Fu lui a fornirmi a costo zero tutta una serie di colle e pigmenti d'oro, d'argento e di bronzo indispensabili per quello schifo di pittura piena di arzigogoli. Se avessi dovuto comprarli in un negozio d'arte in quella quantità mi sarebbero costati un occhio della testa. Ottenni perfino quattro dosi da mezzo litro di lacca essiccante: un attimo per spruzzarla e due ore dopo tutto asciugato e pronto per la consegna.
Adesso dovevo scegliere le foto e non fu una gran fatica: la tipa di Kyoto era fotogenica e per niente difficile da ritrarre. Una foto poi ha i suoi vantaggi: quando l'hai fermata sopra una superficie con due puntine da disegno non si muove come una modella in carne e ossa, puoi tenerla lì tutto il tempo che occorre, perché una foto non beve, non mangia, non piscia e non deve dormire.
Per i soggetti imitai -mi vergogno come un ladro a scrivere copiai- i tanti quadri in cui Gustav ritrasse la sua amante, quella Emile Flöge che a Vienna in quei tempi era una specie di Donatella Versace. Aveva un salone di alta moda e una figura splendida.
Tre settimane dopo allineai i quattro quadri 180 x 120 lungo una parete in piena luce. Li osservai a lungo: poi mi diedi una pacca sopra una spalla. Ottimo lavoro, perdio! E non ero mai dovuto correre al cesso per vomitare, come temevo. Un successone!

Affittai un furgone Mercedes, vi caricai dentro due gabbie fatte di tavole di legno incrociate, che lasciavano libero uno spazio minimo dove le tele, due per gabbia, si andavano a incastrare. Un lavoretto da professionisti. Mi misi al volante e partii, non prima di aver preavvisato il mio arrivo con una e-mail.
Il cancello che dava sulla strada si spalancò davanti al muso del Mercedes, dovetti solo scalare in seconda.
Davanti all'ingresso della villa mi aspettavano due uomini aitanti in tuta grigia: li battezzai giardinieri, ma va a sapere quali fossero le loro mansioni. Portarono via gabbie e tutto.
Mi venne incontro una signora ancora giovane e molto elegante con un grande sorriso stampato sulla faccia.
-Mi chiamo Ursula Pfefferle; sono la segretaria di madame Song.
Senza neanche stringermi la mano mi consegnò una busta.
-Questo è il suo onorario. Se vuole controllare.
Contai quaranta pezzi da cinquecento. Era quanto pattuito.
-Tutto in ordine? -chiese Ursula Pfefferle- Allora buona giornata.
-Non devo firmarle una ricevuta?
-No. Buongiorno.
Se ne andò, piantandomi nell'atrio.
Dopo un po' viaggiavo verso il parcheggio della ditta dove avevo affittato il furgone, e mi sentivo straordinariamente allegro. Pensavo al pozzo di petrolio che avevo scavato nella mia soffitta.

Nei dieci mesi successivi, però, non ho ricevuto nessuna visita da parte di madame Song con o senza Labrador, né telefonate, né e-mail. Silenzio polare.
Non ho nemmeno tentato di telefonare a Olga per sapere quel che combinava la sua amica. Devo confessare che ogni mattina accendendo il PC ho cercato nella posta elettronica in arrivo che uscisse fuori in fondo in neretto il nome di Liù Song. Niente.
Ieri pomeriggio, per caso (bugia, bugia) sono passato davanti alla cancellata d'ingresso di Villa Song. Ne usciva in quel momento un camion di una ditta di traslochi. Il cancello automatico rimaneva aperto, allora ho imboccato il vialetto. C'erano altri uomini aitanti in tuta grigia, che spostavano casse.
-Traslochiamo -mi ha detto il più loquace- la signora è andata via da più di un mese.
Volevo chiedere degli oltre duecento quadri; volevo anche chiedere dei miei quattro quadri, ma io non sono così sfacciato, e poi le opere d'arte si trasportano sempre per prime. Cosa ne poteva sapere quell'operaio?
Ho percorso tutta la facciata a piccoli passi e proprio dietro l'angolo c'era un grosso contenitore, che nei traslochi serve sempre per ammucchiare immondizie, stracci e cose che si vuole distruggere, che non servono a nulla, che nessuno vuole più.
Mi sono alzato sulla punta dei piedi per guardarvi dentro e li ho visti: distrutti, a pezzi, come il mio acrilico 150 x 150 di pittura gestuale. Tra i pezzi dei telai e delle tele strapazzate usciva fuori il muso di un Labrador che guardava in alto verso il viso della padrona, il viso di Liù. Ma qualcuno aveva tagliato via quel pezzo e di Liù si vedeva solo una mano, che reggeva un guinzaglio di vernice rossa.
Sono tornato rapidamente alla mia auto e me ne sono andato. Mi sentivo furioso e mortalmente addolorato, come se mi avessero ammazzato il mio miglior amico.
Ho guidato fino a notte, senza meta; poi sono ritornato a casa e mi sono infilato sotto le coperte senza toccare cibo, perché avevo lo stomaco chiuso.
Dopo un po' per fortuna sono crollato nel sonno.




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